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FOTORACCONTO MAURITANIA GENNAIO 2025

(per vedere le didascalie, clicca sulle immagini delle slideshow)

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VI
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Giornata inaugurata da un'alba strepitosa ma in cui le cose decidono di prendere una piega imprevista. Partiamo presto da Ouadane, alle 7:00, per essere a Zouerat verso le 12:00. Ma poco dopo la partenza ci accorgiamo che la seconda auto (io sto nella prima) non ci segue più (siccome percorriamo una pista, è normale stare distanziati di un centinaio di metri per non farsi ricoprire di polvere). Veniamo a sapere che la seconda auto ha forato una gomma e ci fermiamo ad aspettarli. Dopo una mezz'oretta ci raggiungono e andiamo ad Atar da un gommista. Mentre siamo quasi arrivati, un'auto della polizia, con i lampeggianti accesi, ci fa segno di cedere la strada e affiancare: sta per passare un nutrito gruppo di ciclisti, pare ci sia la "maratona del deserto" ciclistica. Sembra una cosa bella, ma non tardiamo molto a cambiare idea: scopriamo che i ciclisti sono diretti a Choum, sulla strada per Zouerat, e non possiamo percorrere quella strada. Dopo un po' ci lasciano passare ma quando arriviamo, assieme ad altre auto, a ridosso degli ultimi ciclisti, veniamo immancabilmente fermati. Lunghe soste, senza sapere quando potremo ripartire, poi si riparte, si raggiungono di nuovo gli ultimi (che vanno veramente piano) e ci si ferma di nuovo. È uno stillicidio e stiamo accumulando un ritardo sempre più ampio.

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A un certo punto, uno dei driver suggerisce al nostro di prendere uno sterrato. Usciamo dall'asfalto e ci tuffiamo a spron battuto su una pista sabbiosa, nell'intento non solo di recuperare il tempo perduto ma anche e soprattutto di superare il gruppetto di testa, per evitare ulteriori rallentamenti. Entriamo a Choum praticamente assieme ai battistrada della gara ciclistica, evitando per poco uno scontro con chi ha lanciato la volata a poche centinaia di metri dal traguardo. Finalmente, dopo, possiamo dirigerci a Zouerat, ma i driver sono palesemente provati e con la scusa di voler fare una foto, facciamo osservare una pausa ristoratrice.

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Giungiamo a Zouerat con tre ore di ritardo sulla tabella di marcia prevista, quindi saltiamo il pranzo per recarci all'appuntamento col funzionario della SNIM, l'azienda statale che si occupa delle miniere. Mentre stiamo per entrare in città vediamo il famoso "treno del deserto", lungo più di 2 km e pronto per partire col suo carico di 84 tonnellate di minerali ferrosi per ognuno dei suoi oltre 200 vagoni. Da qualche anno in qua, salire su uno di questi vagoni carichi di ferro e scendere a Nouadhibou dopo circa 18 ore di viaggio, immersi nella sabbia e nella polvere, è diventata una cosa popolare per i viaggiatori più avventurosi, nonostante la fatica, le giornate afose in estate e le notti fredde in inverno. Avevo una mezza intenzione di provarci (mi sono pure portato gli occhiali da sci) ma poi rinuncio perché - visto che i treni non rispettano un orario e partono quando vogliono - è impossibile organizzare la cosa per tempo.

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Il funzionario della miniera ci accompagna in fuoristrada presso una specie di belvedere da cui si può ammirare il gigantesco cratere (580 metri di profondità) da cui risalgono giganteschi camion speciali (che da quassù paiono modellini ma trasportano fino a 300 tonnellate di roccia l'uno per ogni viaggio, 24 ore su 24). La miniera, che ha altri tre crateri del genere nei paraggi, dà lavoro a circa 800 persone, divise su 5 turni. Da sola costituisce più del 30% del PIL nazionale, circa l'80% delle esportazioni. Prima di abbandonare questo autentico girone dantesco, abbiamo modo di ammirare da vicino uno di questi giganteschi camion, con ruote alte circa 4 metri e per salire sul quale c'è una scaletta con diversi gradini da percorrere.

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Non abbiamo più il tempo per andare a visitare l'assurdo "tunnel nel deserto" (ora in disuso) costruito dai Francesi e considerato dai locali un grandioso esempio di stupidità europea, ma abbastanza per andare a fare qualche scatto divertente presso un enorme deposito di giganteschi copertoni usati.

VII
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Giornata di trasferimento da Zouerat a Nouadhibou, bella ma molto lunga anche a causa di una foratura. Partiti presto dalla capitale mineraria del paese, la prima sosta fotografica è al villaggio di Touajil, particolarmente fotogenico anche grazie alla luce radente del mattino. Mentre proseguiamo vediamo giungere il treno del deserto (di rientro a Zouerat) e non possiamo non fermarci ad immortalarlo. Il treno non segue orari, quando lo si vede è sempre una sorpresa, quindi bisogna stare all'erta per non lasciarselo sfuggire.

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La tappa successiva, anche logistica, la facciamo a Choum: dobbiamo riempire i serbatoi e fare provviste perché per il resto della giornata percorreremo solo piste. Durante l'attesa, assistiamo allo svolgersi della vita del villaggio, incentrata sulla strada asfaltata che lo attraversa: un enorme camion fa benzina al piccolo distributore mentre bimbi molto vivaci scorrazzano sulla strada principale giocando a trascinare bottigliette di plastica riempite di sabbia.

 

Poi ci si inoltra nel cuore del deserto che, anche se non è un susseguirsi di dune gigantesche come ad Azoueiga, offre spesso scorci affascinanti con isolate colline rocciose e la sparuta vegetazione che sopravvive alla sabbia, che anche oggi, spinta dal vento, sembra voler ricoprire ogni cosa. Verso mezzogiorno giungiamo a ridosso del monolito di Ben Amera, di cui ci si rende delle dimensioni solo quando si giunge ai suoi piedi. Alto 633 metri, è il più grande d'Africa e considerato il secondo al mondo dopo Uluru (Ayers Rock in Australia). Nei suoi paraggi vi sono altre rocce, tra cui il monolito di Aisha, secondo un detto locale la controparte femminile di Ben Amera, a causa della sua morfologia che richiama chiaramente le forme femminili. Pranziamo al sacco ai suoi piedi, in una zona di grandi massi dove artisti locali e non sono stati invitati a creare delle sculture avvalendosi delle rocce.

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Molto particolare anche il villaggetto a fianco del monolito dove, oltre alla tangibile sensazione di fine del mondo che caratterizza questi posti, tutto sembra essere stato costruito a partire dalle traversine di metallo della ferrovia, un tratto comune anche ai villaggi incontrati in seguito come Timichat e Legreidat. È una zona davvero remota, prova ne è che non abbiamo incontrato altro che locali, se escludiamo un paio di camion 4x4 da spedizione superattrezzati.

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Eravamo già in notevole ritardo sulla tabella di marcia poi un'altra foratura che ha richiesto un intervento di circa 40' ha ulteriormente allungato i tempi. Abbiamo avuro il privilegio di vedere il sole tramontare lentamente ma siamo giunti destinazione a notte inoltrata. Al nostro arrivo troviamo un convoglio in stile Parigi-Dakar che sta facendo manutenzione ai propri mezzi di fronte al ristorante dove ceniamo.

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VIII
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Siamo a Nouadhibou dove evidentemente il porto da cui si esportano i minerali ferrosi trasportati dal treno del deserto e l'intensa attività peschereccia un po' di ricchezza la portano perché sento per la prima volta il ronzio di un'auto elettrica e, ancora più sorprendentemente, vedo una Mercedes nuova di fabbrica. La città, che sorge all'estremità di una piccola penisola, ha un porto brulicante di vita che non vuole mostrarsi: già da tempo non erano graditi i fotografi, ora addirittura è vietato l'accesso ai turisti. Peccato, perché le barche nel porto, addossate le une alle altre in maniera che sembra sfidare la legge sulla impenetrabilità dei corpi, sarebbero un soggetto interessante, viste su Google Maps paiono un disegno frattale.

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Ci rechiamo a Cap Blanc, la punta estrema della penisola su cui sorge Nouadhibou (NDB per gli amici) che un po' mi sorprende. Non ero giunto fin qua in precedenza e dalle foto che avevo visto non mi sembrava niente di che. Dal vivo invece difficilmente lascia indifferenti: da un lato l'oceano aperto che ha scavato delle scogliere che combattono ogni giorno contro la potenza delle onde, dall'altro una laguna dove lingue di sabbia delimitano un habitat decisamente diverso dove cresce vegetazione e trovano rifugio uccelli acquatici. Anche da questo lato le scogliere sono particolari benché paiano piuttosto fragili.

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La tappa successiva è decisamente meno convenzionale. Andiamo alla ricerca di navi abbandonate, cosa per cui NDB è stata tristemente famosa per molti anni, arrivando ad essere considerata il più grande cimitero navale al mondo per colpa di armatori senza scrupoli che, grazie alla connivenza delle autorità portuali, invece di far smantellare le vecchie navi secondo le norme, preferiscono lasciare i vecchi scafi in queste acque. Circa un anno fa, tutte le barche in "decomposizione" sono state vendute ai Cinesi, interessati a recuperare il metallo di cui sono fatte. Ma hanno già ricominciato ad apparirne di nuove, quando ci andiamo noi ne troviamo 7/8, in una piccola spiaggia stracolma di rifiuti di ogni genere, plastica in primis.

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Dopo pranzo partiamo in direzione sud, dove dobbiamo pernottare in un campo tendato all'interno del parco nazionale di Banc d'Arguin. E ancora una volta la Mauritania si mostra per quel paese vasto che è. Servono circa 4 ore di guida per giungere a destinazione, anche stavolta con molto sterrato da percorrere. Quando raggiungiamo l'alloggio, scopriamo che più che tende sono dei bungalow e tutti gradiscono il "salto di qualità", anche se pare un posto di molto recente apertura visto che alcune cose ancora sono da sistemare: nella mia stanza - decorata con carta da parati che raffigura in serie delle torri di Pisa - non c'è l'interruttore della luce ma dei fili scoperti intrecciati. Chiedo come fare a spegnere e mi viene mostrato: basta staccare i fili, facile. Comunque l'addetto dell'albergo non è morto fulminato, la cosa mi rincuora. Poi, mentre stiamo facendo delle chiacchiere dopo cena, tutte le luci si spengono, quindi il problema di rimanere fulminati non esiste proprio più.

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Giornata quasi interamente dedicata ai villaggi abitati dagli Imraguen, l'etnia composta da circa 5.000 individui che si dedica alla pesca in queste pescose acque. Sono gli unici autorizzati a pescare all'interno dell'area protetta dal parco nazionale di Banc d'Arguin, sito UNESCO. Tra i metodi tradizionali ce n'era uno, ormai non più praticato, che si effettuava con la collaborazione dei delfini. I pescatori Imraguen avevano imparato a comunicare con gli intelligenti mammiferi marini grazie a dei fischi: i delfini si avvicinavano a riva e facevano in modo che i cefali che di solito li seguono finissero nelle reti dei pescatori, i quali poi lasciavano una sostanziosa quota di pesce ai loro insospettabili collaboratori.

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Il primo villaggio che visitiamo è quello di Iwik, a poche centinaia di metri dal nostro alloggio. C'è gente nel villaggio ma non ferve molta attività, gli unici un po' vivaci sono gli studenti che, ben poco timidi, mi chiedono di essere fotografati. Tutti immancabilmente  assumono pose da rapper afroamericano, con sguardo da duro e cappuccio della felpa calato in testa, uno addirittura vuole essere fotografato di spalle, una posa probabilmente vista adottare da qualche idolo musicale.

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In un altro "villaggio" nei pressi non c'è nessuno, poche case e tutte disabitate ma i segni dell'attività di pesca sono molti: pesci morti sparsi un po' dappertutto, cormorani che attendono appollaiati sull'albero di una barca in secca, carapaci svuotati e piccoli cumuli di enormi conchiglie. Proseguiamo verso sud e ci fermiamo a Chami dove, dopo una passeggiata fotografica, pranziamo in un ristorante locale, dove dubito vedano molto spesso turisti occidentali.

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Riprendiamo il cammino e, dopo un'altra ora abbondante di guida (ma quanto è grande la Mauritania?), entriamo in un altro villaggio Imraguen: Lemheijratt. C'è attività. Degli adulti stanno squamando dei pesci, poi giunti in spiaggia vediamo decine di barche in acqua, alcune delle quali stanno scaricando il pescato del giorno. La gente è molto cordiale e si lascia fotografare, che differenza col porto di NDB! Peccato solo che moltissimi pesci siano lasciati andare a male (o forse lasciati in pasto agli uccelli) nella sabbia, sembra quasi che ai pescatori interessi di più estrarre le uova per ricavarne la bottarga che mangiare o vendere il pesce. Ultimi 100 km e siamo di ritorno nella capitale Nouakchott (NKC per gli amici), per l'ultima notte in terra mauritana.

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Ultima giornata in Mauritania, in pratica un giorno in più ottenuto grazie alla partenza a notte inoltrata. Partenza con calma (anche se uno dei nostri è partito alle 7:00 per tornare al mercato dei cammelli) e facciamo sosta presso la deliziosa Zeinart Gallery dove la proprietaria, di origini portoghesi, mette in vendita un riuscito mix di arte, artigianato pregiato e antichità come molto raramente è dato trovare in Africa. La signora è cordiale e decisamente eclettica, come dimostrato anche dalle galline di diverse razze che ci accolgono nel cortile antistante alla galleria.

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In seguito recuperiamo la visita al Museo Nazionale che avevamo trovato chiuso il primo giorno. Diviso in due parti - quella archeologica e quella sulla vita tradizionale - è un interessante compendio del paese e dei suoi usi e costumi.

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Poi sosta nella zona in cui si trova una decina di negozi di souvenir/artigianato/antichità, il livello non è paragonabile a quello della galleria ma non mancano oggetti simpatici e di poco costo.

 

Dopo pranzo ci rechiamo nella zona del mercato del pesce della capitale. È un posto affollatissimo, ci sono migliaia di personaggi al lavoro anche se per lo più neri - pochi gli arabi - tra quelli che sono in spiaggia tra centinaia di colorate imbarcazioni e quelli che dividono il pescato, quelli che lo puliscono e quelli che lo comprano. C'è anche tutto il resto come negozi, bancarelle di street food e biliardini. Sfortunatamente però è una giornata piuttosto ventosa e la maggior parte delle barche pare ancorata in rada mentre in un mio viaggio precedente vidi file di lavoratori scendere in mare fino alle barche a una 20ina di metri dalla battigia per caricare sulla testa dei contenitori di plastica colmi di pesce. Oggi queste scene non si vedono ma rientriamo in albergo con ancora negli occhi le vivaci scene offerteci dal mercato del pesce.