FOTORACCONTO GHANA APRILE 2023
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GIORNO 1
Primo giorno di trasferimento in aereo, con lungo stop over a Istanbul. Poiché la Turkish Airline a chi ha soste aeroportuali molto lunghe offre il pernottamento gratuito o, in alternativa, la partecipazione a tour in pullman di alcune ore, opto per la seconda opzione scegliendo un tour che mi porta in zone della capitale turca che non ho mai visitato in precedenza (ci ero già stato due volte, per un totale di 7 giorni circa) e torno nell'alberghetto nel centralissimo quartiere di Sultanhamet in cui ero stato anche ad aprile scorso, di passaggio per il Pakistan. Non tiro fuori nemmeno la macchina fotografica dallo zaino, completo relax.
Dopo le non semplicissime procedure per l'ottenimento del visto on line (ne sa qualcosa una mia amica), l'entrata in Ghana è piuttosto veloce. Solo una cosa mi sorprende: prima del controllo passaporti, c'è il controllo sanitario dove chiedono se si è in regola con la vaccinazione per la febbre gialla. Consegno il certificato vaccinale e l'addetto, prima di restituirmelo, mi chiede qualcosa che non capisco. Chiedo di ripetere ma di nuovo mi sfugge, evidentemente devo ancora abituarmi all'accento locale. Quasi spazientito, cambia domanda e stavolta capisco subito: "Hai qualche regalo per me?". È bastato un semplice "no" per proseguire indenne al controllo successivo. Quando arrivo ad Accra è già buio.
Welcome to Africa!
GIORNO 2
Svegliato dai tuoni di un acquazzone tropicale, si parte in auto di buon mattino alla scoperta di una terra ricca di sorprese. E subito s'improvvisa perché la prima visita non era programmata: scorgo un'insegna che recita "coffin art" (arte delle bare) e chiedo al driver di fermarsi. È il laboratorio di un artigiano specializzato nel realizzare bare su richiesta, di norma raffiguranti la professione o una passione del defunto. In corso di esecuzione c'è una bara a forma di Bentley e una a forma di cobra. A onor del vero, la visita a questi workshop è programmata nell'ultimo giorno del viaggio, pertanto rimando all'ultima tappa per gli approfondimenti.
La giornata odierna è dedicata alla ricerca dei posuban, un tipo di santuario/tempio/monumento - spesso riccamente colorati e decorati - in cemento che si trova solo in Ghana, nei territori del popolo Fante. Il nome deriva dall'unione della parola inglese 'post' e Fante 'ban' (fortificazione). Questi santuari sono opera delle compagnie asafo, le unità militari patrilineari tipiche della maggior parte delle società Akan. Le compagnie asafo, storicamente responsabili della difesa della città, al giorno d'oggi sono più significative per la loro funzione cerimoniale e per la loro attività e influenza nelle arti e nella politica locale. La maggior parte delle città della regione ha tra le cinque e le 12 società asafo rivali, ciascuna identificata da un numero, nome e posizione. In generale, minore è il numero dell'unità, prima è stata istituita e più è influente sul capo tribù. Ad Anomabu, ad esempio, un nuovo capo supremo presta sempre giuramento al posuban della Compagnia n. 1, che è adornato con un lucchetto e una chiave simbolici.
Molti posuban sono nati come magazzini, usati per contenere non solo le armi, ma anche le insegne della compagnia (tra cui le bandiere), e sono spesso decorati in un modo che è sia riccamente simbolico che - per l'estraneo - decisamente criptico. La ricchezza delle decorazioni varia enormemente da città a città e si potrebbe facilmente passare davanti alla maggior parte dei posuban di Cape Coast senza notarli, poiché nella migliore delle ipotesi sono decorati da un piccolo murale. A Elmina e Mankessim, al contrario, i santuari più importanti sono oggetti a più piani decorati con un massimo di dieci forme umane a grandezza naturale e abbastanza complessi nel loro simbolismo da dover richiedere diverse decine di minuti di spiegazione per coglierne tutti gli aspetti simbolici. La cosa più sorprendente dei posuban è che, nonostante la loro antichità e unicità rispetto a qualsiasi altra regione africana, hanno veramente poco di riconducibile a questo continente. Un famoso santuario di Anomabo evoca l'Africa raffigurando leoni e leopardi ma seduti accanto a una balena e diverse creature surreali simili a cervi, mentre il più famoso è costruito a forma di nave da guerra europea. Altri raffigurano marinai europei e orologi ricoperti di vegetazione, mentre un altro esempio in Elmina raffigura la storia di Adamo ed Eva. Un affascinante miscuglio di ben cinque secoli di interazione europea e africana nei porti costieri.
Non è sempre facile determinare quando questi santuari siano stati realizzati, ultimamente s'è presa l'abitudine di riportare la data sul monumento. La maggior parte sembrano aver assunto la loro forma attuale nell'era post-indipendenza: il posuban "Adamo ed Eva" a Elmina è stato reso pubblico per la prima volta a metà degli anni '60 mentre quello di Saltpond viene datato al 1685. In realtà queste strutture sono spesso soggette a rimodernamenti, rifacimenti, aggiunte o semplici riverniciature, quindi può capitare che un posuban vecchio di secoli sembra sia stato costruito l'altro ieri.
Il primo che visito è quello di Gomoa Otsew, che nemmeno la mia guida ha mai visto prima, infatti ci mettiamo un po' a trovarlo, chiedendo informazioni per strada più volte. L'indicazione giusta ce la da un locale che stava aspettando un passaggio per andare altrove ma poi decide di accompagnarci di persona. Sarà poi lui a raccontarci la storia del santuario, mentre nel frattempo intorno al narratore (e a noi due stranieri, mi sa che qua ne vedono pochi) si crea una piccola folla di locali, che evidentemente non sentivano quel racconto da un pezzo. A qualche decina di metri dal posuban vedo un edificio diverso dagli altri, con delle statue di leoni davanti all'ingresso. Chiedo se sia un luogo visitabile, mi dicono che è l'abitazione del capo villaggio ma che è assente.
Anche se so che è molto improbabile, chiedo se è possibile vedere la bandiera della compagnia asafo locale ma mi dicono di no. Ciò nonostante, l'argomento merita un approfondimento. I Fante, per difendersi dal potente Impero Ashanti, non avevano un esercito unitario ma diversi gruppi militari distinti tra loro, legati alle compagnie asafo, non di rado in rivalità, guidate da un supì, un capo eletto a vita. Quando vennero in contatto con gli Inglesi a cui procuravano oro e schiavi, cominciarono a mettere la Union Jack - un simbolo di potere - in un angolo delle loro bandiere (frankaa), al cui interno appaiono scene che raffigurano proverbi, che dimostrano la potenza della compagnia e che spesso sfidano esplicitamente le compagnie avversarie. Durante il periodo coloniale le compagnie asafo perdettero le loro prerogative militari ma mantennero quelle politiche e sociali, avendo influenza su salute pubblica e strade, politiche locali e cerimonie funebri, persino sull'intrattenimento. Non potendo più sfidarsi con le armi in pugno, le bandiere divennero gli oggetti attraverso i quali manifestare l'appartenenza a una compagnia, di norma fatta realizzare da un nuovo componente. Dopo l'indipendenza del Ghana, avvenuta nel 1957, sulle bandiere viene messa la bandiera del Ghana. In quanto appassionato collezionista di arte africana antica, possiedo una bella bandiera, probabilmente risalente agli anni '50.
Il posuban successivo è quello della compagnia n. 1 di Mankessim. Riccamente decorato da una miriade di animali e personaggi, è uno dei più famosi in assoluto e forse per questo, oltre a sembrare riverniciato di fresco, per visitarlo bisogna rivolgersi a un guardiano che, evidentemente innamorato del suono della propria voce (o forse da tempo in attesa di un'audience), risulta di una prolissità da latte alle ginocchia e che la prende talmente alla larga, partendo da Adamo ed Eva fino a citare il conflitto tra Russia e Ucraina, che a un certo punto faccio di tutto per mostrarmi disinteressato alla sua spiegazione, allontanandomi e facendo foto, nella speranza di indurlo a smettere.
Ad Anomabo, città che ne annovera ben sette, ci addentriamo - è proprio il caso di dirlo - in un sovrappopolato quartiere di casupole, lasciando l'auto dove si può visto che qui le strade, già strette di loro, non hanno parcheggi. Appena sceso dal mezzo ne vedo uno, più piccolo rispetto a quelli già visti ma molto colorato, vorrei fotografarlo ma la richiesta di denaro, in tono poco amichevole, da parte di un ceffo locale mi fa desistere. Non sembra tirare una bella aria da queste parti. La guida locale mi porta a quello più famoso, eretto in una stretta piazzetta che sovrasta, a forma di nave da guerra europea e che riporta sulla prua la data di costruzione nel 1957. Dopo un po' di ricerche, viene portato al nostro cospetto un vecchietto dall'aria simpatica che indossa una canottiera da basket talmente grande e logora che gli arriva alle ginocchia, sembra quasi indossi un abito da sera femminile. Sembra un po' spaesato ma probabilmente è stato individuato come uno dei pochi che può ricordarsi della sua costruzione. Parla in maniera infantile, ripete spesso le stesse parole come per dar loro più forza, ma mi sembra che gli brillino gli occhi dalla gioia per essere al centro dell'attenzione.
Esploro il quartiere, una specie di slum, e nel giro di poche decine di metri mi trovo letteralmente sull'Oceano Atlantico! Le ultime casupole, minimamente protette da una parvenza di frangiflutti ma di fatto costruite sulla battigia, sono letteralmente prese d'assalto dalle onde del mare: non so se in questo momento ci sia una marea particolarmente alta, non mi pare, ma l'acqua entra nelle case, addentrandosi per alcuni metri anche nei vicoli che le circondano. Mai vista una cosa del genere. Ovviamente qui sono tutti pescatori, e proprio ai piedi del posuban ce ne sono diversi che, come al solito, sono impegnati nella riparazione delle reti da pesca. Rientrati verso l'auto, vedo che si è improvvisamente creato un folto gruppo di donne, alcune molto agitate che urlano a squarciagola. Sembra sia appena passata a miglior vita una signora del posto, e le manifestazioni di dolore e cordoglio, sicuramente sentite, sono molto "spettacolarizzate" con urla e pianti molto scenografici, come una volta succedeva nel nostro Meridione. Al di là del dispiacere per la sconosciuta, la gente del posto è un po' sovraeccitata, la situazione non mi piace e sollecito un veloce allontanamento prima che succeda qualcosa di poco simpatico.
In serata giungo nell'Eco Lodge (molto eco, poco lodge) di Benyin, le cui capacità di catering sono molto basiche. Questa la conversazione col barista/cameriere:
- Posso avere un menù?
- Non ce l'abbiamo.
- Cosa c'è di disponibile?
- Riso.
- Nient'altro?
- No.
- Carne, pollo, condimenti?
- No, solo riso.
- Ok, allora mi porti del riso fritto.
Dopo un po' mi portano riso con pollo. Misteri delle cucine africane.
Il posto se non altro è spettacolarmente piazzato di fronte all'oceano del Golfo di Guinea, con una spiaggia orlata di palme dal fusto alto e sottile. E ben ventilato, cosa assai gradita visto che in camera senza ventole e aria condizionata si soffoca.
GIORNO 3
Oggi visita del villaggio su palafitte di Nzulezu, abitato da circa 500 Nzema, costruito sulla laguna di Amanzule per ragioni difensive circa 400 anni fa e poi diventato un insediamento definitivo. Secondo la leggenda locale, i fondatori giunsero dal villaggio di Oualata (nell'odierna Mauritania) dell'antico Impero Ashanti, inseguendo una lumaca. Un fondo di verità pare esserci visto che, pur vivendo sull'acqua, gli abitanti di Nzulezu più che la pesca prediligono l'agricoltura.
Il villaggio dista circa 5 km dalla strada più vicina ed è raggiungibile solo in canoa. Dapprima, essendo la stagione delle piogge ancora agli inizi e l'acqua del canale che porta verso Benyin piuttosto bassa, percorriamo un paio di chilometri a piedi sugli argini del canale, poi saliamo su una canoa a motore (graditissima l'aria fresca di cui si può godere sotto un sole impietoso) che, dopo aver attraversato una zona di fitta vegetazione pluviale in cui in teoria potrebbero esserci dei coccodrilli, ci conduce al villaggio. Qui la vita si svolge sulla "main street", una passarella di traballanti assi di legno di circa 800 metri, sulla quale le persone svolgono le loro attività giornaliere: i bimbi tornano da scuola, i neonati dormono all'ombra assieme a gattini non molto più cresciuti, alcune donne si riposano letteralmente sdraiate in mezzo alla "strada", un anziano riempie un piatto di enormi larve da palma che si agitano lentamente. Non c'è l'elettricità ma vi sono diverse parabole televisive perché le tv vengono fatte funzionare collegandosi a della batterie da auto (che di notte alimentano l'illuminazione), non mancano una scuola, un centro della comunità (dove è d'obbligo fermarsi per essere accolti dal capo della comunità - e soprattutto versare l'obolo) e qualche piccolo negozio. Ultimamente il villaggio si è aperto al turismo (pare un solo giorno alla settimana) ed è addirittura stato candidato a diventare Patrimonio dell'umanità dell'UNESCO per la sua importanza antropologica: oltre a essere uno dei pochi insediamenti antichi su palafitte rimasti al mondo, vi si conserva una grande ricchezza di tradizioni locali legate al culto del lago. Sulle sponde del Tadane avvengono tutti i riti religiosi, e il giovedì, giorno sacro del lago, è vietato lavorare.
Al rientro a Benyin, visitiamo il Forte di Apollonia, uno degli oltre 30 edifici fortificati di questo tratto di costa, in passato chiamato Costa d'Oro, fonte di grandi guadagni sul commercio dell'oro e degli schiavi da parte degli Inglesi prima e degli Olandesi poi. Non è certo maestoso come quelli che vedrò in seguito però è letteralmente deserto (anzi, ci vuole un po' per trovare il guardiano che ci lasci accedere), però al suo interno, per quanto piuttosto naif, è quasi commovente il tentativo dei locali di realizzare un piccolo museo nella speranza di attirare turisti: vi sono vistosi dipinti murali, piccole realizzazioni fatte dagli scolari locali e una serie di oggetti d'uso ricoperti di polvere.
Nel pomeriggio si ritorna verso est e lungo la strada si notano ogni tanto dei locali esibire una specie di enorme topo (una panteGhana?), considerato dai locali una prelibatezza. Si tratta del "ratto del bambù", una specie di grosso roditore selvatico che vive tra le canne, capace di raggiungere i 60 cm di lunghezza e sfiorare i 10 kg di peso, apprezzato per le sue carni anche in altri paesi africani e asiatici, addirittura in Gabon allevato appositamente. Non molto diverso dalla nutria che popola le nostre zone umide, piatto apprezzato in Sudamerica e negli Stati Uniti, ultimamente anche in Italia.
Nel pomeriggio giungo in un resort sulla spiaggia di Ampeni, gestito da Olandesi, dove infatti c'è qualche famiglia e gruppo di persone dalla carnagione nordica. Non esattamente il tipo di luogo che vado cercando nei miei viaggi ma, se non altro, essendo proprio sulla spiaggia, è battuto da una salvifica brezza marina pomeridiana che, viste le temperature sempre ampiamente sopra i 30°, è sempre molto gradita.
GIORNO 4
Oggi giornata dedicata alla visita di Elmina e del suo castello, l'edificio europeo più antico dell'Africa subsahariana, uno dei due siti patrimonio dell'umanità dell'UNESCO del paese. Fatto costruire da Giovanni II del Portogallo nel 1482, è il primo caso di presenza permanente degli Europei in Africa Occidentale, un fatto che esercitò subito un notevole impatto sulla regione e sulle popolazioni circostanti. Su sollecitazione portoghese, Elmina si dichiarò uno stato indipendente il cui governatore prese il controllo degli affari della città. Al popolo di Elmina fu offerta protezione contro gli attacchi delle vicine tribù costiere, con le quali i Portoghesi avevano rapporti molto meno cordiali (anche se erano amichevoli con le potenti nazioni commerciali dell'interno africano). Se qualche locale tentava di commerciare con una nazione diversa dal Portogallo, i Lusitani reagivano con brutalità, spesso formando alleanze con i nemici della nazione traditrice. L'ostilità tra i gruppi aumentò e l'organizzazione tradizionale delle società indigene ne soffrì, soprattutto dopo che i Portoghesi introdussero le armi da fuoco, il cui impatto sulla storia militare dell'Africa cominciò appunto in questo periodo. Il commercio con gli europei contribuì a rendere alcuni beni, come tessuti e perline, più disponibili per le popolazioni costiere, ma il coinvolgimento europeo interruppe le tradizionali rotte commerciali tra le popolazioni costiere e le popolazioni dell'entroterra, eliminando gli intermediari locali. Mercanti di altre tribù, popoli ed etnie gonfiarono la popolazione di Elmina, attirati dalla possibilità di commerciare con i portoghesi che gradualmente stabilirono un loro monopolio sui commerci dell'Africa occidentale.
Fin dagli inizi, i Portoghesi decisero che il Castello non si sarebbe occupato del commercio di schiavi, preferendo concentrarsi sull'estrazione dell'oro e sulle rotte commerciali dell'entroterra che avrebbero risentito delle guerre necessarie per catturare gli schiavi. Si limitarono quindi a farne un punto di deposito e trasbordo per destinazioni future, raccogliendo le spedizioni di prigionieri che provenivano dai vicini Benin e Sao Tomé, di norma catturati nell'entroterra dalle popolazioni africane costiere e poi venduti ai Portoghesi in cambio di cavalli e tessuti. I Portoghesi di norma nominavano un governatore che durava in carica per tre anni, con ampi poteri su tutto il territorio sotto il dominio lusitano. All'inizio del XVI secolo, all'apice del commercio dell'oro, dalla cosiddetta Costa d'Oro venivano esportate annualmente 24.000 once del prezioso metallo, circa un decimo della produzione mondiale dell'epoca, benché le imbarcazioni portoghesi dovessero difendersi dagli attacchi dei corsari francesi e inglesi. Nel 1568 ebbe inizio la Guerra degli Ottant'anni tra l'Impero Spagnolo (in cui era confluito il Portogallo) e l'Olanda. Dopo un primo tentativo fallito nel 1596, gli Olandesi conquistarono il forte nel 1637 ed elessero Elmina a propria capitale della Costa d'Oro olandese, rendendola il fulcro della tratta degli schiavi fino al trattato del 1814 che la abolì. Ora, dopo aver ospitato per anni una scuola militare, il Castello è un museo e un'attrazione turistica, particolarmente visitata dagli afroamericani, come testimoniato dalle numerose corone di fiori e altre offerte depositate nelle varie sale in cui venivano detenuti gli schiavi, di cui le guide locali spiegano dettagliatamente le disumane condizioni di vita a cui erano sottoposti gli sfortunati coinvolti nella tratta.
Ma, per quanto sia una visita toccante, per me il vero highlight della giornata è l'animatissimo mercato del pesce, che si svolge a poche decine di metri dal Castello e offre uno spettacolo umano impareggiabile: migliaia di pescatori, compratori e rivenditori si affollano sulle banchine che danno sulla laguna che separa la Old Town dalla New Town, gridando prezzi di vendita o acquisto, spostandosi con pesanti carichi di pescato in precario equilibrio sulla testa in un caleidoscopio di colori, frastuono e odori forti che possono stordire le narici più delicate.
Anche la città, che ospita in cima a una collina la prima chiesa cristiana eretta nel paese e ha le strade più antiche ancora punteggiate di malconci edifici coloniali, merita di essere scoperta con calma a piedi, magari andando alla ricerca dei posuban locali che, pur presenti, paiono ricevere meno attenzioni dai propri indaffarati cittadini di quelli visitati in precedenza. Poi il cielo s'incupisce ma se da un lato è una benedizione perché mi sottrae agli spietati raggi del sole africano (pure il driver si lamenta dell'inusuale temperatura asfissiante), dall'altra parte minaccia una violenta scarica d'acqua (che poi non si verificherà subito) che mi fa propendere per un rientro anticipato al resort, non prima di aver importunato l'ennesimo barbiere locale per le foto di rito che amo raccogliere in ogni viaggio.
GIORNO 5
Oggi visita al Castello di Cape Coast, assieme a quello di Elmina il più famoso dei 30 forti/castelli della Costa d'Oro. La storia dei due edifici, per forza di cose, si somiglia molto, differenziandosi solo per il fatto che qui vi sono stati anche gli Svedesi. Però la visita in questo luogo è più lunga e approfondita, sia perché la guida spiega molti dettagli - specie sulla tratta degli schiavi - e sia perché i visitatori sono molto interessati, ve ne sono alcuni che riprendono tutto con la videocamera e spesso fanno domande di approfondimento. Alcuni di loro sono americani di origine africana, sembra quasi stiano girando un documentario e nelle varie stanze in cui venivano segregati gli schiavi in attesa di essere deportati sono stati depositate diverse corone di fiori mortuarie e offerte di altro genere (soprattutto bottiglie di alcoolici, cosa tipica delle offerte voodoo), in ricordo di chi ha perso la vita tra queste mura o nel prosieguo del viaggio. Fa un caldo umido insopportabile, le stanze - nonostante siano al buio e costituite da mura spessissime - sembrano dei forni e ogni volta che si passa dal cortile, dove giunge la brezza marina, si prova refrigerio. Stare rinchiusi in questi antri, nelle calca e in infime condizioni igieniche, dev'essere stato un vero inferno.
Dopo la visita al castello, scendo nella spiaggia antistante, ancora popolata dalle barche dei pescatori che, ormai venduto il pescato, stanno tirando a riva le pesanti e colorate imbarcazioni. C'è anche una grande barriera frangiflutti a protezione del porto, dove le onde dell'oceano sbattono abbastanza violentemente, e ci sono orde di ragazzini che mi seguono, chiedono per quale squadra di calcio tifo per poi chiedere una "donazione" per la loro squadra, con tanto di quaderno in cui segnare i nomi (e le cifre versate) dei generosi donatori. Astuti.
Di nuovo pomeriggio on the road, per tornare verso est, ad Amrahia, ufficialmente parte di Accra ma in realtà a circa 30 km dal centro della capitale, che è molto popolosa (poco più di 4 milioni di abitanti) ma soprattutto molto vasta (pochi grattacieli e palazzoni), come avevo notato giungendovi in aereo, individuando un'apparentemente infinita serie di quartieri.
GIORNO 6
Giornata che sembrava foriera di cose interessanti ma che poi non si è rivelata tale. Dovevamo comunque avvicinarmi alla zona del Lago Volta perché domani comincia il week end del Dipo, il rito di passaggio delle giovani Krobo, e pareva l'occasione giusta per approcciare il voodoo che, benché quello più celebrato sia nel vicino Benin, anche qui ha sacche di praticanti, soprattutto tra gli Ewe. Per raggiungere il villaggio in questione dobbiamo attraversare in barca un fiume molto largo che potrebbe essere il fiume Volta, emissario dell'omonimo grande lago. Visitiamo il villaggio, la gente è cordiale e molto rilassata. Veniamo ricevuti da un prete voodoo che, grazie alla traduzione di una giovane locale, spiega il suo ruolo e risponde volentieri alle domande ma di assistere a riti o cerimonie non se ne parla, quelli si officiano solo di giovedì (cioè ieri) e comunque non sarebbe stato possibile fotografare nulla (ma almeno avrei visto coi miei occhi), nemmeno il mini-rito di ringraziamento (accompagnato dalle due bottiglie di superalcolici che abbiamo portato come offerta) recitato in nostro onore.
Contrariamente a quanto molti credono, il voodoo non è un fenomeno legato solo alla magia nera ma una religione a tutti gli effetti, dotata di un ricco pantheon di divinità, una complesso cosmologia e una precisa serie di dottrine morali. La storia delle bamboline di pezza da infilzare di spilloni è una cosa che è stata cavalcata da una miriade di film occidentali ma non trova nessuna corrispondenza con la pratica reale. Il voodoo si basa sulla venerazione della natura e degli antenati, e sulla credenza che i vivi e i morti coesistano fianco a fianco: il mondo dei morti è sovrapposto a quello delle persone e vi si può accedere grazie a una serie di spiriti intermediari, che sono un legame anche con Dio. I credenti voodoo hanno un concetto semplice del peccato: credono che si debbano sempre compiere buone azioni e che si sarà puniti per quelle cattive. L’idea negativa che molti hanno del voodoo si deve al colonialismo, in particolare il sacrificio degli animali è stato associato alla stregoneria, nonostante sia un’usanza radicata anche nelle tradizioni di molte altre religioni, basti a pensare all'agnello pasquale o alle macellazioni halal e kosher. È ritenuta una delle religioni più antiche al mondo, anche se la forma attuale è stata codificata tra il Seicento e il Settecento, pressoché contemporaneamente in America Latina (portatavi dagli schiavi deportati proprio da queste zone) e in Africa occidentale, come una continuazione della forma originale ma frutto della combinazione di elementi derivanti dal cattolicesimo dei colonizzatori europei ed elementi ancestrali dell'animismo tradizionale africano diffuso nel Benin prima del colonialismo. Attualmente il voodoo è praticato da circa sessanta milioni di persone in tutto il mondo, è la religione ufficiale in Benin (dove è praticato dall'80% della popolazione) e a Haiti, avendo discrete percentuali di praticanti anche in Ghana, Togo, nei Caraibi e in Brasile, dove assume denominazioni e usi diversi. Il voodoo sta vivendo un periodo di revivalismo, sempre più diffuso anche negli Stati Uniti come forma di "riappropriazione culturale" degli afroamericani.
Come tutte le religioni antiche, anche il voodoo ha numerosi cerimoniali legati alla magia e particolarmente vasto sembra essere l'arsenale della magia nera, che ha grande presa sul popolo: Duvalier, il temuto Papà Doc dittatore di Haiti dal 1957 al 1971, si spacciava per la reincarnazione dell'entità Baron Samedi, in grado di scagliare potenti maledizioni (affermò di aver causato lui la morte di John Kennedy) e pare che pure Fidel Castro e Hugo Chavez vi abbiano fatto ricorso. Da collezionista di arte africana, ho sempre trovato il voodoo molto interessante e ho pure qualche manufatto rituale voodoo tra i miei oggetti ma, vi tranquillizzo, secondo il voodoo uno strumento non "conserva" la carica negativa eventualmente imputatagli, anzi nel momento in cui non viene "curato" a dovere perde le sue proprietà soprannaturali. E soprattutto, come sosteneva un esperto in materia, "la magia funziona su chi ci crede".
In serata giungo in albergo a Somanya, nei pressi di Odumasi Krobo, la città abitata in maggioranza dai Krobo dove domani e dopodomani si terranno le due giornate finali della cerimonia del Dipo, il rito di passaggio all'età adulta delle ragazze. Resto in attesa della guida per domani, un Krobo, che però arriva un'ora più tardi. Spiega come si svolgeranno le giornate di sabato e domenica e poi ci dice che il re verrà a conoscerci, anche perché ha l'abitudine di venire a farsi una nuotatina (con amiche) nella piscina dell'albergo. Vista la prevedibile poca puntualità del sovrano, optiamo per cenare lo stesso, infatti poco dopo comincia a piovere e mi dicono che il sovrano lo incontreremo domattina. Chicca della giornata l'incontro con Mr. Nash, lo sciccoso proprietario dell'albergo che sfoggia polsini col proprio cognome e una smaccata predilezione per i colori azzurro e arancio, non a caso gli stessi coi quali è stato tinteggiato l'albergo. A touch of greatness.
GIORNO 7
Oggi prima giornata del Dipo, il rito di passaggio delle giovani Krobo dalla pubertà all'età adulta, e quindi prodromico al matrimonio. Per essere ammesse alle cerimonie, le ragazze devono essere vergini. Una volta bisognava avere tra i 12 e 18 anni per prendervi parte, ultimamente si vedono bimbe sempre più giovani, non perché ci si sposi prima ma perché i genitori temono che l'indottrinamento cristiano - molto forte da queste parti, è pieno di pubblicità di predicatori e leader spirituali - induca le ragazze a rinunciarvi in età maggiore. Quindi si passa da bimbe talmente piccole che la parata in giro per la città la fanno in spalla alla madre ad altre che mi superano in altezza e che sembrano delle donne fatte e finite.
Entriamo nel "Dipo palace" dove si terranno tutte le fasi private del rito e veniamo portati al cospetto di un personaggio nei confronti del quale tutti dimostrano grande deferenza. Dopo un po' capisco: è il re dei Krobo. Piuttosto giovane (o giovanile), direi sui 40 abbondanti, ben piazzato, in jeans, ciabatte e gran orologio d'oro. Sembra un tipo sveglio. Meno sveglia invece è la nostra guida Krobo: sembra che si sia dimenticato di portare l'immancabile omaggio per il sovrano, di norma un paio di bottiglie di superalcolici. Il monarca vuole sapere se vogliamo fare delle foto e se abbiamo intenzione di venderle. Certo che voglio fare delle foto, venderle non so se riuscirò a farlo. Alla fine chiede di mandargliene delle copie e di non fotografare le ragazze quando sono a seno scoperto, cosa non facilissima visto che per la maggior parte del rito molte saranno a petto nudo, anche se ultimamente - e qui si vede la sempre maggior influenza del cristianesimo - la maggior parte hanno i seni e i fianchi coperti da fasce di cotone bianco. Ogni clan Krobo, qui ad Odumasi ce ne sono sette, svolge i propri riti del Dipo distintamente da quelli degli altri clan. Noi siamo ammessi a quello del clan del re, quindi il più potente e forse anche il più numeroso, a cui prendono parte ben 81 ragazze.
Dopo un po' le iniziande, tutte coi capelli rasati cortissimi, vengono messe in fila indiana, vestite con una stoffa colorata, i piedi scalzi, una specie di collana di fibra al collo e delle tracce di una sostanza bianca (che dicono essere mirra) su fronte, guance e spalle. Con in testa una calebasse - che tutte tengono con due mani - all'interno delle quali si notano una stoffa rossa e delle fibre vegetali, escono dal cortile del palazzo e, guidate dalle donne più anziane, attraversano le strade della città per recarsi al fiume. Questa storia della "parata" tra le strade si ripeterà, perché uno degli scopi originari di questo rito è di far sapere che le ragazze sono pronte per sposarsi. Arrivati a un certo punto, ormai nei pressi del fiume, mi viene detto di non proseguire oltre, perché al fiume le ragazze evidentemente si spogliano per "purificarsi".
Dopo qualche decina di minuti torna la processione, scatto delle foto e quando, seguendo le ragazze, sto per entrare in un cortile diverso da quello dal quale siamo partiti, mi rendo conto che stavo seguendo il gruppo sbagliato. Sorry. Torna il "mio" gruppo, lo riconosco dalla prima ragazza che in tutte le parate e gli altri momenti sarà sempre in testa alle altre: è un privilegio che si è guadagnata perché è stata la prima a cui è sbocciata una pianta che è stata data a tutte le ragazze. Tornate dal giro, si siedono all'ombra di un tendone montato in mezzo al cortile e vengono rifocillate con alimenti tradizionali, gli unici che possono mangiare durante questi giorni. Le iniziande sono estremamente compite e silenziose, a differenza delle madri e delle altre astanti che cantano e suonano con delle calebasse e danzano eccitate. Alcune ragazze, sospinte dalle madri, si mettono in posa per farsi fotografare a seno scoperto dai fotografi locali che immagino oggi facciano affari d'oro.
La cerimonia osserva una lunga pausa e ne approfittiamo per pranzare con dei succulenti manghi freschissimi. Poi faccio un giro e trovo un campetto da basket dove 6 ragazzi a torso nudo si sfidano in una partitella: sono molto atletici, ma cestisticamente piuttosto grezzi. Chiedo di fare due tiri insieme a loro assieme al driver e, per qualche minuto mostro lampi di un'antica maestrìa, prima di rischiare di avere un infarto sotto l'implacabile solleone africano. È ancora presto per tornate al palazzo e allora ne approfitto per farmi tagliare la barba da un barbiere locale, al misero costo di 5 cedis (circa 0,38€).
Rientrato nella Dipo House, vedo che le ragazze hanno tutte un bastone e a turno viene loro fatto un segno nero sulla fronte, attorno all'attaccatura dei capelli. Poi partono per un'altra parata durante la quale attraversano quartieri diversi da quelli del mattino, entrano anche in alcuni cortili e infine sulla strada principale, dove passano anche le auto. I riti odierni sono terminati e allora, con l'aiuto della poco sveglia guida locale, andiamo a trovare un prete voodoo che abita a qualche decina di chilometri da Odumasi Krobo. Il personaggio in questione ci accoglie con molta cortesia ma anche molta curiosità, fa molte domande e s'informa sul perché siamo interessati al suo operato. Prendiamo accordi per tornare il mattino dopo, verso le 9:00, per non assistere a non so bene cosa.
GIORNO 8
Il titolare dell'agenzia locale cha ha organizzato il tour oggi è presente anche lui a Odumasi Krobo con dei clienti del Kuwait, dice che è passato alle 8:30 nel luogo in cui avevamo appuntamento (ma eravamo d'accordo per le 9:00, senza contare il canonico ritardo del "Ghana time") e che non c'era nessuno, quindi ci dice che è meglio andare a visitare la fabbrica di perle di vetro riciclate.
Le perle di vetro hanno una lunga tradizione in questa zona del Ghana, prodotte in loco per molti secoli in vari materiali tra cui pietra, osso, legno, gusci di cocco, conchiglie di mare, argilla e ottone. Il contatto con i commercianti di tutto il deserto del Sahara e gli Europei ha portato nuovi materiali per la produzione di perline nell'area e si pensa che le tecniche di produzione delle perle di vetro siano state introdotta dagli Europei. Intorno al XVI secolo era notevole la produzione di perle di vetro in diverse parti d'Europa per soddisfare il mercato africano tra cui la Boemia (perle ceche), l'Olanda e l'Italia (perle veneziane). Vennero chiamate "trade beads" in quanto di fatto erano una valuta per l'acquisto di merci nell'Africa occidentale, anche schiavi. Tradizionalmente le perline sono uno status symbol che rappresenta la ricchezza (usate persino dai reali) ma anche il lutto (di norma in bauxite rossa), un parto recente (di colore bianco) o messe attorno alla vita dei bambini piccoli come protezione. Tuttora vengono indossate dalle donne Krobo, spesso nascoste dai vestiti, quasi come se fosse un capo di lingerie riservato agli occhi del marito e stanno diventando sempre più popolari anche presso gli Africani della diaspora. La produzione e l'uso di perline commerciali sono molto importanti nella cultura del popolo Krobo - in pratica, le perline delle iniziande Krobo rappresentano la ricchezza della famiglia, come se fosse una vera e propria dote, soprattutto quando vengono sfoggiate le più pregiate perline antiche - al punto di dare vita a una propria produzione, principalmente con vetri rotti riciclati. Nella vetreria visitata, c'erano centinaia di bottiglie usate, grazie a un accordo con l'ambasciata americana di Accra (dove evidentemente, tra acqua e alcolici, pare non si facciano mancare nulla), pronte per essere fuse. Il vetro viene ridotto in piccoli pezzi oppure in polvere, in modo da poter creare le combinazioni di colore desiderate, poi messe in piccoli stampi e messe in un piccolo forno dove, una volta raggiunta la temperatura desiderata, vengono ulteriormente modellate. Eventualmente possono essere dipinte e sottoposte a una seconda cottura. Procedimento interessante, simpatica la collana (nelle foto seguenti) fatta di perle trasparenti provenienti da bottiglie di Coca Cola e verdi da bottiglie di birra.
In seguito, visto che al Dipo Palace ci consentono di andare solo nel pomeriggio (secondo quanto mi risulta, stamattina dovrebbe esserci il rituale durante il quale alle ragazze vengono lavati i piedi col sangue di una capra offerta in sacrificio dalla famiglia e, siccome le cerimonie del Dipo sono contestate da alcuni attivisti - per via del fatto che le ragazze devono sfilare per la città mezze nude - probabilmente non vogliono fare assistere agli stranieri a questa parte del rituale che solleva altrettante critiche), ci rechiamo dal prete voodoo. Lui non c'è, è in viaggio non si sa dove, però ci sono dei ragazzi e qualche adulto che suonano le percussioni e danzano. Non sembrano essere venuti apposta, sembra che vivano lì, ogni tanto qualcuno spunta da una porta e si aggiunge al gruppo. Non saprò mai se avrei potuto assistere a una cerimonia voodoo vera e propria o se l'accordo preso prevedeva di vedere queste danze (belle sì, ma niente di particolarmente nuovo).
Comunque, voodoo o meno, m'inquieta l'onnipresenza di personaggi religiosi sui cartelloni pubblicitari, alcuni veramente enormi e palesemente realizzati da pubblicitari professionisti, in cui vengono spesso rappresentati come fossero stelle del cinema (e infatti, agli inizi, pensavo fossero personaggi televisivi) quando non addirittura come dei supereroi. Campagne pubblicitarie che sicuramente costano soldi, che evidentemente si possono raggranellare copiosamente grazie a questa "professione". Non sostengo che siamo ai livelli di quanto successo a Shakaola in Kenya, ma è indubbio che in Ghana la religione sia anche un grosso business. Ovviamente in origine qui si praticavano religioni animiste ma i colonizzatoti europei (ricordiamoci che i primi a giungere in questa regione furono i Portoghesi, da sempre più invasivi col proselitismo religioso rispetto ai più prosaici Inglesi e Olandesi) imposero il Cristianesimo, dando luogo a particolari forme di sincretismo. Oggi oltre il 70% della popolazione si professa cristiana, anche se spesso non ha mai rinunciato a credere al pantheon delle divinità africane. È in questo humus che prosperano tali personaggi che si autoproclamano pastori o reverendi ma anche vescovi e arcivescovi, alcuni persino profeti o apostoli. Quasi sempre (ma non esclusivamente) sono uomini, ben vestiti e istruiti, ovviamente dotati di buone capacità oratorie, i più bravi decisamente ricchi, come svela questo articolo (in inglese). Ovviamente non ho potuto assistere a una di queste riunioni, che più che nelle chiese si tengono in centri congressi (alcuni di proprietà dei predicatori, capaci di contenere fino 10.000 fedeli), a volte con più speaker che si susseguono - un po' come nei megaconcerti rock -, perché bisogna essere dei fedeli accreditati. Da quel che leggo, i predicatori parlano per ore, ma quasi sempre i loro discorsi sono accompagnati o intervallati da musica dal vivo (generalmente gospel ma anche pop e reggae) e i fedeli ballano. Ci si può fare un'idea di come siano questi eventi attraverso video che si trovano su youtube (questi predicatori usano abbondantemente i social e gestiscono canali streaming, quando non addirittura canali televisivi veri e propri, con milioni di follower): List of Top 10 influential Pastors in Ghana 2022 e, tra i miei preferiti, Ghana preachers performs Bob Marley. Buona visione.
Un'altra cosa che rivela la forte religiosità dei Ghaniani, è la diffusissima pratica di dare al proprio business un nome di stampo confessionale, del tipo "Ditta Gesù è la mia forza" oppure "Surgelati Dio è Grande". Ne vedete qualcuno tra le foto che seguono.
La giornata si chiude con la fase finale del Dipo. Quando arrivo io le ragazze sono già agghindate con l'abbigliamento tradizionale composto da strisce di stoffa bianca su seni e vita, strisce di rafia su braccia e schiena, pesanti collane di perle di vetro intorno ai fianchi, mirra sulle spalle e segni bianchi su fronte e braccia. Se fossi arrivato prima avrei potuto vedere le ragazze mentre si vestivano ma non avrei potuto fotografarle perché il re non vuole che vengano riprese coi seni scoperti. Anzi no, in un angolo alcune ragazze a seno nudo si stanno purificando usando l'acqua di una calebasse con delle foglie e sono proprio le madri che mi invitano a scattare le foto di questo momento per loro importante. È il momento migliore per fare delle foto perché le ragazze hanno i vestiti del giorno finale ma all'interno del palazzo non è facile fare delle buone fotografie in un cortile dove ci sono centinaia di persone che vanno e vengono in continuazione. Dopo un sopralluogo e aver ottenuto il permesso da un anziano che dorme nella stanza accanto, trovo una stanza laterale un po' buia ma dove c'è un muro azzurro pieno di scarabocchi che mi sembra possa essere uno sfondo adatto. Dico al driver di convocare qualche ragazza per le foto e dopo un po' cominciano a presentarsene diverse, spesso sospinte dalle madri. Per una decina di minuti tutto fila alla perfezione, i soggetti si lasciano fotografare con calma ma all'improvviso scoppia un acquazzone e la stanza viene invasa da chi cerca riparo dalla pioggia. Addio foto. Nel frattempo, alle ragazze è stata messa una foglia in bocca e dovranno tenerla così per ore.
Smette di piovere e le ragazze devono superare un'ultima prova. S'incamminano, in processione a piedi nudi e con ancora la foglia in bocca, nelle strade spesso fangose, verso una roccia sacra ai margini della città, fermandosi nei pressi di un canna di bambù sotto la quale devono passare. Mi becco una lavata di testa da un anziano perché supero quel limite, ma nessuno mi aveva avvisato di non farlo. Le ragazze spariscono alla vista di tutti per affrontare la prova decisiva di tutto il cerimoniale: dovranno sedersi per tre volte sopra una pietra sacra, cosa che secondo la credenza locale non riuscirebbero fare se non fossero più vergini o se avessero abortito. Non superare questa prova sarebbe una vergogna insostenibile, la ragazza ma anche l'uomo che l'ha spinta a infrangere questo tabù sarebbero cacciati dal villaggio oppure dovrebbero affrontare impegnativi riti di purificazione. Ovviamente è anche un metodo per controllare la moralità dei giovani e impedire delle maternità precoci e indesiderate. Dopo questa prova, scoppia la felicità: le ragazze, tra urla di gioia e anziani che sparano in aria con fucili di epoca poco successiva al Medio Evo, vengono caricate in spalla dalle madri (le più grandicelle anche da uomini) che si dirigono di corsa verso il Dipo Palace.
Si torna tutti al luogo di partenza, alcune ragazze con le proprie gambe, che significa che non c'è nessuno che si prende cura di loro. Si siedono su delle stuoie ancora con la foglia in bocca, e pertanto non possono parlare. A tutte viene consegnato un cappello di paglia cilindrico poi, dopo non so quale rito di un anziano, possono togliersi la foglia e finalmente bere e rifocillarsi. Le più grandi di età (quelle che hanno avuto le prime mestruazioni) vengono adunate in una sala e, chiamate una ad una da un anziano, ricevono in dono da una delle regine due pacchetti di assorbenti femminili. Nel frattempo le più giovani abbozzano qualche passo di danza ma sembra farlo solo perché spinte dalle genitrici. Si fa tardi, la luce comincia a essere poca e rientro in albergo, stanco ma felice per lo stupendo spettacolo a cui mi è stato concesso di assistere.
In realtà l'intero rituale del Dipo è ben lungi dall'essere terminato. Secondo la tradizione, dopo la giornata odierna le iniziande vengono ospitate per una settimana durante la quale vengono loro trasmessi insegnamenti su come cucinare, sui lavori di casa, su come allevare i figli, sulla seduzione e sul sesso. Imparano la danza klama, che eseguiranno l'ultimo giorno del rito, al termine della quale le cerimonie saranno terminate, ringrazieranno tutti i parenti che le hanno aiutate in questa prova e riceveranno dei regali. Nel 1872 il rito del Dipo, che prevedeva che le ragazze trascorressero tre anni sul Monte Krobo (luogo ancestrale a cui i Krobo ritengono di appartenere), era stato ufficialmente vietato ed è stato di nuovo autorizzato in seguito solo dopo che è stato riformato nel rito attuale che viene svolto in 7 giorni.
GIORNO 9
La prima parte della giornata è di trasferimento al nord, con volo interno che mi porta a Tamale. All'uscita del basico aeroporto, ci preleva il driver locale e ci dirigiamo ancora più a nord, verso Karimenga, a qualche decina di chilometri dal confine con l'attualmente molto problematico Burkina Faso. Prima di arrivare a destinazione, facciamo una sosta per visitare lo stupendo palazzo di fango di Wulugu, che molti chiamano erroneamente "la moschea di fango di Zayaa". In realtà era l'abitazione privata di Sheik Abdul-Karim, un sant'uomo di etnia Mossi, proveniente dalla città di Bawku, che sognò di dover costruire un palazzo con una forma particolare ma non gli era stato rivelato né quale né dove. Dapprima migrò a Bolgatanga, poi a Pwalugu e infine a Wulugu, dove in sogno gli venne rivelata la forma precisa e che quello era il posto giusto. Il mattino dopo si recò sul punto preciso che gli era stato indicato e vi trovò un pozzo. Secondo la leggenda, ogni mattina trovava l'edificio più alto di quanto lo avesse costruito il giorno precedente, fino al completamento del palazzo. Anche per questo motivo, In seguito sognò che il palazzo doveva essere considerato luogo sacro: infatti, viene tuttora chiesto di accedervi scalzi. Il palazzo di due piani, costruito probabilmente negli anni '50/'60 del secolo scorso direttamente sopra al pozzo da cui si può attingere senza uscire dal palazzo, è un labirinto di 45 stanze, alcune veramente minuscole, con entrate talmente strette che spesso bisogna mettersi di profilo per passare dalle porte. Molti visitatori raccolgono l'acqua dei pozzi (ve ne sono due esterni al palazzo) che viene considerata sacra perché, secondo una credenza, proverrebbe dalla stessa sorgente del pozzo Zamzam della Mecca (cosa piuttosto improbabile visti gli oltre 5.000 km di distanza). La guida locale è un giovane che distogliamo dalle preghiere nella moschea di fronte: molto spigliato e sicuro di sé, si dichiara seguace di una forma di sufismo (la pratica ascetico-religiosa islamica tendente all’unione mistica con la divinità) locale ed è molto ligio alla preghiera quotidiana al punto che porta con sé un breviario che recita ad alta voce tra la spiegazione di un dettaglio architettonico dell'edificio e l'altro.
Pernottamento in un eco lodge (molto eco, poco lodge), dove prepararsi la doccia significa riempire un secchio di acqua da tirarsi addosso, prima di andare a dormire sotto una zanzariera con parecchi larghi buchi. Ovviamente, niente wifi, quindi sfrutto un telefonino di scorta che, opportunamente dotato di sim card locale, mi fa da hot spot.
GIORNO 10
Giornata piuttosto impegnativa anche perché, con la stagione delle piogge agli inizi, la temperatura si aggira sui 40° all'ombra. Primo stop, dopo ore di strada, è presso le Tongo Hills, una zona di una ventina di chilometri quadrati ricca di formazioni rocciose di granito che spiccano in una zona di piatta savana, da secoli ritenuto un luogo sacro dai Tallensi, una popolazione poligamica che adora i coccodrilli. In un anfratto tra queste rocce c'era l'antica scuola. Prima di accedere alla collina sacra che ospita il santuario più importante devo passare nel villaggio di Tengzug che è, a dir poco, spettacolare. L'architettura labirintica trasforma ogni angolo in uno scorcio inaspettato, le "piazzette" ospitano altari voodoo (in pratica ogni adulto ha il suo), sui quali sono evidenti gli indizi dei sacrifici e delle offerte quotidiane (in linea di massima di pennuti) e tra un compound e l'altro si dipanano stretti sentieri, sinuosi come le forme architettoniche delle case a cui girano attorno. Una simbiosi tra spazi fisici e sociali che hanno fatto inserire Tengzug tra i luoghi candidati a far parte dei siti patrimonio dell'umanità dell'UNESCO. Come non bastasse, il capo villaggio (che purtroppo non è presente, avrei voluto stringergli la mano con ammirazione) vanta attualmente ben 305 mogli. Dopo aver ottenuto l'autorizzazione anche dal prete voodoo più alto in grado, posso ascendere all'altare (in realtà una grossa fenditura nella roccia) in cima alla collina, scalzo e a torso nudo. Anche le donne, turiste comprese, devono attenersi a questa regola e quindi la mia compagna di viaggio si astiene. È assolutamente vietato fotografare l'altare ma posso testimoniare che è un ammasso informe di piume di galline, cordicelle (con le quali sono state portate fin lì delle capre o delle pecore da sacrificare) e altre sostanze, tra cui soprattutto sangue animale, perché ogni richiesta di aiuto o protezione va accompagnata da un sacrificio. In una delle foto che seguono c'è la grotta con i teschi degli asini sacrificati.
La giornata prosegue con la visita al villaggio di Sirigu, abitato dai Frafra, dove un'intraprendente donna locale ha fondato la SWOPA, una cooperativa femminile che produce vasellame, cesteria e decora le case con disegni tradizionali. Certo, non è come lo stupendo villaggio di Tiebelé abitato dai Gurunsi, (anche se ho la sensazione che sia un malcelato tentativo di imitarlo), che è veramente a un tiro di schioppo da qui, circa 20 km in linea d'aria, appena oltre il confine col travagliatissimo Burkina Faso.
Sulla via del ritorno, facciamo una sosta presso delle signore che tessono su telai artigianali e poi la solita pausa rinfrescante a base di frutta tropicale, siamo comunque in orario per rientrare a Karimenga e fare un "farming tour" con la famiglia che gestisce l'eco lodge ma Giove Pluvio fa partire i primi goccioloni di un acquazzone e quindi desistiamo anche se poi tarda a scatenarsi, cosa che mi auguravo nella speranza che abbassasse la temperatura rovente attuale.
GIORNO 11
Sveglia di buon'ora per essere a Gambaga all'orario giusto. Gambaga è una cittadina che ospita al suo interno uno degli ultimi "villaggi delle streghe" del nord del Ghana. Qui vengono accolte le persone accusate di aver operato dei malefici contro qualcuno causandone la sfortuna, la malattia o una morte misteriosa. Le persone accusate di questo atto rischiano di essere linciate e si rifugiano qui dopo che il capo villaggio di Gambaga e/o il suo prete hanno effettuato i sortilegi del caso. La maggior parte (94 su attuali 98 ospiti) sono donne, non perché gli uomini non vengano accusati di stregoneria ma perché per quest'ultimi non è difficile ricominciare una nuova vita dove non si è conosciuti (i 4 uomini presenti sono troppo vecchi per essere autosufficienti) mentre per una donna, immancabilmente anche madre di una prole che la segue ovunque, è impossibile nascondere i motivi della sua condizione. Le presenti si dividono in base all'etnia (ben 7), ognuna con una propria leader. Ultimamente, grazie al lavoro di mediazione svolto da una ONG locale, molte vengono "perdonate" e rientrano al loro villaggio di origine, ma alcune sono nel villaggio da molti decenni, una addirittura da 37 anni, spesso con figli cresciuti qua.
Mi racconta la sua storia una donna di 80 e passa anni, qui da 31 (vedi foto). Era la prima moglie di un uomo da cui aveva avuto un figlio, mentre la seconda moglie ne aveva avuti 7. Poco dopo la morte del marito, uno dei figli della seconda moglie morì in maniera apparentemente inspiegabile e la madre accusò la prima moglie dell'evento. Lei negò tutto, dovette fuggire e nascondersi presso la casa dei suoi genitori ma, per sfuggire al linciaggio, riparò definitivamente a Gambaga. Scatenare un'accusa del genere pare piuttosto semplice, basta che due o tre persone sostengano di sospettare di stregoneria o anche solo di aver fatto un sogno in tal senso che vengono considerati argomenti sufficienti. A volte sono gli stessi familiari a proferire le accuse, altre volte le donne si autoconvincono di quanto gli viene incolpato. Storie che paiono incredibili in pieno XXI secolo.
Rientrando verso Tamale in anticipo rispetto a quanto preventivato (le "streghe" ci hanno accolto subito perché poi essendo coinvolte in progetti produttivi non ci avrebbero potuto ricevere più tardi), il driver nota una serie di capanne non di fango come tutte le altre ma con le pareti esterne di erbe intrecciate. È un accampamento di Fulani (detti anche Peul), un popolo di pastori di norma seminomadici (questi sono stanziali) provenienti dal Mali/Burkina Faso in cerca di terre più ricche di pascoli. In effetti qui, per quanto meno rispetto alla zona costiera, il verde non manca e il bestiame viene spostato saltuariamente tra questo accampamento e un altro, a cui capo c'è il fratello di quello che comanda questo, a circa una decina di km. Somaticamente piuttosto diversi dagli altri popoli del nord del Ghana: alti, magri, volti più allungati, le donne hanno tatuaggi facciali e scarificazioni sugli zigomi. Si alimentano del latte delle vacche che macellano solo in casi particolari o di necessita, essendo il numero dei capi in possesso la misura della ricchezza di un Fulani.
Nel pomeriggio visitiamo un villaggio Dagomba, l'etnia dominante nel nord del Ghana. È un popolo di allevatori (prodotti principali yam e mais) collegato coi Mossi del Burkina Faso, in passato fondatori di un potente impero. I loro villaggi sono costituiti da "compounds" abitati da un nucleo familiare (a volte anche allargato) che si sviluppano con stanze (quadrate per gli uomini e rotonde per le donne) attorno a uno spiazzo centrale, il tutto racchiuso da alte mura di fango, in modo da sembrare tante mini-fortezze su cui svettano i tetti conici di paglia. Al bisogno, si possono aggiungere stanze al compound, visto che c'è sempre una certa distanza dagli altri "grappoli di compounds". In uno di questi vi era pure un basso muro per separare i due generi. I Dagomba praticano la poligamia e, stando a quanto mi dice il driver/guida (lui pure un Dagomba), di norma vengono stabiliti dei turni di 3 giorni in cui la donna che passa la notte col marito è la stessa che gli prepara i pasti.
La giornata si chiude in maniera decisamente inaspettata. Avendo tempo a disposizione, dopo aver trovato il settimo campetto da basket, vado alla ricerca del Savanna Center for Contemporary Art (SCCA), di cui mi era giunta voce da un'amica su Facebook. Ammetto che non era in cima alla lista dei miei interessi e quando ho trovato il centro espositivo in fase di smantellamento non ero disperato ma quando il giovane (direttore?) dei lavori mi ha invitato a visitare il magazzino/stabilimento Red Clay (in aperta campagna) sono rimasto letteralmente a bocca aperta di fronte a quanto vi ho trovato: sculture gigantesche, spazi espositivi grandiosi degni di una capitale europea, carcasse di aerei civili (una usata per corsi di informatica) e di antichi vagoni (e ferrovie) tedesche, incredibili raccolte di pezzi di storia del Ghana e non solo. Tutta opera di Ibrahim Mahama, giovane ma affermato artista contemporaneo, già protagonista alla Biennale di Venezia e altri prestigiosi contesti. Un posto che sarebbe incredibile ovunque e che nella remota Tamale appare letteralmente surreale.
GIORNO 12
Oggi finalmente ammiro dal vivo la moschea di fango di Larabanga, uno di quei luoghi che da anni è entrato nel mio immaginario. La moschea - nel caratteristico stile detto "del Sahel" - è stata fondata attorno al 1421 e ospita un Corano di poco successivo, cosa che la rende uno dei luoghi sacri dell'Islam, al punto che un pellegrinaggio qui può sostituire, per chi non ha i mezzi economici, quello canonico alla Mecca. Come succede spesso nei luoghi considerati sacri, qui è tutto un pullulare di leggende: c'è la leggenda secondo la quale il luogo dove erigere l'edificio religioso sia stato deciso dal punto in cui cadde una lancia; c'è quella secondo la quale sopra alla sepoltura dell'imam che la fece erigere è cresciuto il baobab accanto alla moschea e una volta all'anno gli abitanti di Larabanga ne raccolgono le foglie e ne fanno un decotto "sacro" che bevono i fedeli: c'è quella secondo la quale una grossa pietra, detta la "pietra mistica", prima della costruzione della moschea, veniva spostata perché dovevano costruire una strada e la mattina dopo se la ritrovavano di nuovo nel posto originario.
Larabanga è un paese di circa 4.000 anime, islamiche al 100%. Nonostante sia veramente remota, è palese il tentativo di voler sfruttare il non troppo florido flusso turistico, al punto che le richieste di donazioni o mance per le foto sono più insistenti che altrove. La cosa che più rattrista è che chiedono soldi per la fondazione di una scuola nonostante quella pubblica esista ma non la frequenta nessuno, nel timore che gli scolari vengano educati con valori non islamici.
Stasera a Tamale la stagione delle piogge decolla sul serio con un violento e prolungato acquazzone che ci limita negli spostamenti serali e ci confina nell'alberghetto di proprietà di un simpatico Gallese, che, nonostante l'età apparentemente superiore alla mia, è da poche settimane diventato padre di una splendida bimba mulatta.
GIORNO 13
Giornata di trasferimento con viaggio in bus (turistico) di circa 7 ore da Tamale a Kumasi, la storica capitale dell'antico Impero Ashanti che visiterò domani e dopodomani. Segue una carrellata che intitolerei "Ghana on the road" (c'è anche un video).
giorno 14
Il mercato di Kejetia (o Kumasi Central Market) è considerato, grazie agli oltre 10.000 fra negozi e bancarelle, il più grande del West Africa. Il governo ha già iniziato i lavori per ristrutturare tutta la zona, costruendo una specie di mega centro commerciale su più piani che dovrebbe sostituire gli attuali negozietti e bancarelle, cosa piuttosto avversata dalla popolazione e che sicuramente gli farà perdere gran parte dell'attuale fascino. C'è letteralmente di tutto, persino la zona con carcasse di vari animali da usare nei riti voodoo. Nel pomeriggio assisterò a un funerale Ashanti, evento presso il quale è d'obbligo presentarsi in abito rigorosamente nero e/o rosso. Siccome, come ben sapete, sono un elegantone, ho chiesto a un sarto di farmi una specie di camicia su misura per l'occasione, alla vertiginosa cifra di circa 2,50€.
In tarda mattinata visita agli ultimi edifici eredità dell'Impero Ashanti (sito UNESCO) che toccò il suo vertice nel XVIII sec.
Agghindati alla bisogna, assistiamo ad un paio di funerali Ashanti. Il primo sembra più ricco, vi è anche una sfilata di ragazze in abiti realizzati col kente (stoffa tradizionale Ashanti) che portano in testa ceste piene di offerte come cibo, bibite e caramelle in mezzo a tre ali di folla seduta all'ombra di padiglioni noleggiati all'uopo. Istruito dalla guida locale, ne percorro un lato per salutare i parenti più stretti, mi pare di essere un generale che passa in rassegna le truppe. I consanguinei (per lo più figli dell'85enne passato a miglior vita) si distinguono perché ricoperti da una voluminosa stoffa rossa e hanno al collo una specie di coccarda con la foto del caro estinto, tutti gli altri vestono prevalentemente di nero. Fotografare questi spettacolari personaggi non è facile, alcuni non vogliono essere ripresi.
Ci rechiamo a un secondo funerale, all'altro capo della città, e giungiamo appena in tempo per qualche ultima foto a delle signore che - mentre ballano - lanciano delle banconote (donazioni per i parenti, tutte attentamente annotate con tanto di consegna di quello che pare una ricevuta). In mezzo allo spiazzo, circondato da tendoni che riparano gli astanti dal sole, c'è una gigantografia del deceduto. In giro per la città o il villaggio vengono diffusi dei poster (a volte grandi come delle pubblicità stradali) con la foto della persona commemorata e un lungo elenco di persone che ne piangono la scomparsa: dapprima il capo villaggio e altri dignitari locali, poi i familiari più stretti con l'elenco di tutte le mogli, figli, nipoti, fratelli, cugini, zii, pronipoti, generi, nuore e via dicendo.
La cerimonia ha quel corollario di fotografi, videomaker e musicisti dal vivo come da noi si usa in certi matrimoni. Ne risulta un mix di tristezza e gioia, di condoglianze e festeggiamenti che a noi parrebbe fuori luogo ma che a queste latitudini è la norma, anzi più gente presenzia e più baccano si fa, più si rende onore al de cuius che, una volta raggiunta la sua dimensione di spirito protettivo, saprà ricompensare chi gli ha tributato onore al suo ultimo passaggio nell'aldiquà. Al tramontare del sole, la musica smette e si smonta tutto.
GIORNO 15
Oggi è la giornata dell'Akwasidae, l'evento che si tiene la sesta e ultima domenica di ogni mese (il calendario Ashanti è composto di 9 mesi da 6 settimane) per rendere onore all'Asantehene (cioè il Re degli Ashanti), Otumfuo Mana Osei Tutu II, 72enne in carica dal 1999. Prima però c'è tempo per altro. Dapprima mi incontro con un "antiquario" locale visto il giorno prima al mercato e che aveva detto che, visto che lì gli incendi sono piuttosto frequenti, gli oggetti di maggior valore li tiene altrove. Apre i suoi magazzini e vi trovo alcune decine di sgabelli Ashanti, sembrano usati e di buona qualità ma sono troppo ingombranti da portare a casa, delle "trade beads" (quelle che gli Europei davano in cambio di oro e schiavi) e tante insegne da barbiere dipinte, belle ma palesemente opera della stessa mano, quindi fatte (anche bene) in serie per essere vendute, mentre io cerco oggetti autentici, cioè realizzati da locali per un uso tradizionale. Un buco nell'acqua. In seguito ci rechiamo al Mahyia Palace e visitiamo il museo Ashanti (con statue di legno dei precedenti monarchi dall'inquietante verosimiglianza) e il centro dell'artigianato Ashanti. Nel parco antistante, sotto a un albero gigantesco, vi sono diversi pavoni, uno di questi colpisce ripetutamente col becco la portiera di un'auto scambiando il suo riflesso per un rivale.
Il clou si tiene nel primo pomeriggio quando pian piano cominciano ad affluire in un grande spiazzo a fianco del palazzo migliaia di persone: l'ingresso è consentito a tutti, perfino ai turisti e ai venditori di bibite, ma i partecipanti più prestigiosi non puoi fare a meno di notarli, non solo perché - gli uomini - avvolti in stupende e voluminose stoffe coloratissime, ma perché scortati da chi li protegge dal sole con un ombrello di stoffa ma anche per i massicci bracciali, anelli e orologi d'oro che sfoggiano. Quando tutti sono arrivati, arriva il corteo del Re, seduto su un palanchino (ricoperto di stoffe kente e vari oggetti d'oro massiccio) portato a braccia da dei marcantoni. Non è facile fotografare il re nella bolgia: il palanchino saltella, a fianco c'è sempre qualcuno che sventola un grosso ventaglio perché fa caldo, ci sono uomini e donne in tenuta che sparano colpi di fucile in aria che mi fanno regolarmente sobbalzare. Poi, una volta seduto, il Re è ancora meno visibile, circondato da decine di nobili o attendenti, mentre uno speaker snocciola uno ad uno i nominativi delle autorità (presenti l'ex-presidente del Ghana e molti ministri), un procedimento che va avanti per ore, il tutto mentre ci sono sempre almeno 4/5 gruppi di percussionisti (al seguito dei clan più prestigiosi) che producono ritmi frenetici. A completare il quadro ci si mettono anche le guardie del corpo del monarca, che dopo un po' decidono che non ci si può avvicinare più di tanto.
Nel tardo pomeriggio torno ad Accra in aereo e per cena mi reco nella zona di Oxford Street, secondo tutte le guide il luogo per eccellenza della vita notturna di tutto il Ghana. Ristoranti e locali che sembrano qualcosa di prossimo alla discoteca se ne vedono, ma quello che non può passare inosservato è l'assoluta predominanza di prostitute e, conseguentemente, l'inevitabile sottobosco di facce poco raccomandabili, benché basti non fermarsi a parlare con qualcuno per evitare complicazioni.
GIORNO 16
Ultima giornata in Ghana che comincia con un giro a piedi nello "slum" di Jamestown, l'antico quartiere pieno di edifici coloniali e vicoli, dove la vita si svolge in strada. Benché uno dei più poveri di Accra, ospita il Jamestown Cafè, un misto tra esercizio commerciale, galleria d'arte e centro culturale del quartiere. Noto un paio di insegne di palestre di pugilato, chiedo alla guida locale se è possibile visitarne una e mi porta dove la star è un giovane astro nascente del pugilato ghanese, il 10enne Prince The Buzz Larbie (figlio del trainer della palestra) che si presenta in tenuta da ring con tanto di bordatura di pelliccia e ci mostra un saggio delle sue (impressionanti) abilità agli attrezzi (vedi video seguente).
Proseguendo, oltre a l'ennesimo bel campetto da basket, dapprima accedo a un vecchio studio fotografico risalente agli anni '20, ancora in attività. Faccio un giro anche nel cosiddetto "Piccolo Brasile", dove si sono insediati un nucleo di ex-schiavi tornati dal paese sudamericano. Posti non facilissimi da girare in autonomia, caldamente consigliato avvalersi di guide locali, anche solo per chiedere il permesso di fare qualche foto.
In seguito visitiamo un altro falegname specializzato in bare personalizzate e qui è il caso di approfondire un attimo. In Ghana c’è la tradizione di farsi fare delle bare che rappresentano il proprio mestiere in vita oppure la propria passione e vi sono alcuni falegnami, la cui abilità a volte sfora nell’alto artigianato se non proprio nell’arte pura, specializzati in queste produzioni. L'iniziatore di questa strana abitudine, che non ha altri eguali non solo in Africa ma nemmeno in altre parti del mondo, è stato Seth Kane Kwei. Tutto ebbe inizio negli anni ’50, quando Seth era un falegname alle prime armi che imparava il lavoro presso un laboratorio specializzato nel costruire palanchini. Un capo villaggio aveva chiesto un palanchino a forma di seme di cacao e lui l’aveva prodotto. Il caso volle che poco dopo la consegna, prima ancora che avesse avuto la possibilità di utilizzarlo, il capovillaggio passò a miglior vita. I suoi familiari chiesero al falegname di apportare un paio di modifiche che di fatto trasformarono il palanchino in una bara decisamente insolita. Al corteo funebre il popolo rimase stupito e ammirato e Seth si segnò la cosa. Pochi mesi dopo, mentre si stava costruendo il nuovo aeroporto di Kotoka a fianco di dove viveva, Seth aprì il proprio laboratorio. L’aeroporto e i grandi apparecchi che ne decollavano diventarono ben presto l’argomento principale della città al punto che la nonna di Seth, ossessionata, ne parlava in continuazione, benché non avesse le possibilità economiche per realizzare il suo sogno. Quando venne a mancare, Seth si ricordò del successo della bara del capo villaggio e decise di costruire per la propria ava una cassa a forma di aeroplano, quasi come se il suo viaggio verso l’aldilà potesse compierlo, come ardentemente desiderava, su uno scintillante autobus dell’aria. Fu un nuovo successo. Pian piano cominciarono a giungere ordini di feretri similari: uno a forma di pesce per un pescatore, un altro a forma di cipolla per un agricoltore e il successo riscosso al funerale era il miglior passaparola. Ora i discendenti di Seth, alla terza generazione, non sono più gli unici ad occuparsi di questo inconsueto business: le loro produzioni, in media tra le 200 e le 300 unità all’anno, non bastano più a soddisfare le richieste e quindi anche altri falegnami, spesso dopo aver lavorato come dipendenti presso la falegnameria Kane Kwei, ora le producono per conto proprio. Queste insolite produzioni sono diventate un segno distintivo del Ghana, al punto che Anang Kane Kwei è stato invitato all'estero anche al Festival di Dakar e negli Stati Uniti per parlare del proprio lavoro. Spesso le opere raffigurano il lavoro del defunto: i pescatori chiedono casse a forma di barca o di pesce, gli agricoltori di vari tipi di ortaggi o frutta, gli uomini d’affari a forma di aeroplano o di una Mercedes o di un gigantesco telefonino, un autista a forma di autobus, un benzinaio ha chiesto una bara a forma di pompa di benzina, un fotografo a forma di macchina fotografica. Spettacolare la richiesta di una prostituta che non si vergognava certo del suo mestiere: una donna seminuda sopra un letto. A volte le richieste sono di carattere più simbolico: uomini pii che chiedono feretri a forma di Bibbia, capivillaggio che chiedono bare a forma di leone o aquila, gli avvocati a forma di tartaruga o chiocciola a dimostrare che nonostante la lentezza della macchina giudiziaria (tutto il mondo è paese) raggiungono il risultato, una donna anziana ha chiesto un feretro a forma di chioccia, orgogliosa della numerosa prole che aveva cresciuto. Altre volte sono le proprie passioni a determinare la forma dell'ultimo veicolo, come nel caso di quello che chiese una cassa a forma di bottiglia di Coca Cola, innamorato com'era del sapore della sua bibita preferita. Ultimamente giungono richieste anche dall’estero, generalmente da Ghaniani residenti all’estero in paesi come Stati Uniti, Canada, Belgio, Spagna e Corea del Sud. Ma si registrano anche i primi ordini da parte di occidentali: una coppia olandese ha chiesto per lei, insegnante di musica, una cassa a forma di pianoforte e per lui, meccanico, a forma di chiave inglese.
Ultime ore ghanesi che dedico agli acquisti, cosa che prevedevo difficile vista la gran quantità di souvenirs di bassa qualità presenti nei negozi "specializzati". Alla fine qualcosa di interessante riesco ugualmente a trovarlo, in un mercato dove, oltre ai soliti oggetti banali, si trovano un paio di rivenditori con oggetti degni d'interesse dove trovo una bella raccolta di "sika 'dwa" (sgabello Ashanti simbolo di potere) e ne prendo uno piuttosto voluminoso che sono comunque riuscito a mettere dentro la valigia, un cappello tradizionale di stoffa (e un altro me lo farò spedire) e due vecchie statuette usati nei culti locali con evidenti segni d'uso, per le quali ho condotta una serrata ma necessaria trattativa al ribasso.
GIORNO 17
Ultimo giorno dedicato ai voli di rientro in Italia. Termina così un viaggio veramente interessante in un paese dalle mille sfaccettature, dove si passa da un clima tropicale a quello semidesertico della savana del Sahel, dove convivono l'opulenza sfoggiata dai nobili Ashanti e la semplicità della vita da pastori condotta dai Fulani, dove la modernità dei grattacieli di Accra e Kumasi fa da contraltare agli altari voodoo sparsi nel villaggio di Tengzug, dove ti può capitare di imbatterti in un manager col tablet poco dopo aver parlato con una presunta strega.
Da alcuni definito "un'Africa per neofiti" perché abbastanza moderno e sicuro rispetto ad altri paesi del West Africa (anche se non mancano slum, zone poco sicure e perfino discariche a cielo aperto come quella di Agbobloshie, quindi state in campana oppure affidatevi a chi il posto lo conosce bene), il Ghana è un vero crogiuolo di etnie e un coacervo di situazioni interessanti, dove le varie confessioni religiose sono molto seguite (e pubblicizzate), dove si possono trovare prodotti artigianali peculiari come le perle di vetro e le stoffe kente, dove si trovano confraternite guerriere e santuari che non esistono in nessun altro posto, dove si perpetuano riti antichi e si instaurano nuove mode. Tanta roba, letteralmente.