FOTORACCONTO PAKISTAN - LUGLio 2025
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GIORNO 1
Arriviamo a Islamabad alle 8:00 di mattina provenienti da Istanbul e quindi affrontiamo la prima giornata in Pakistan senza molte ore di sonno alle spalle. Già all'uscita dall'aeroporto si colgono i due aspetti che caratterizzeranno la nostra prima giornata: un caldo africano e la perenne moltitudine di persone che ci circonda. Usciamo tra due ali di folla che, se non fosse silenziosa, ci parrebbe di essere dei campioni sportivi accolti in patria dopo un successo prestigioso. Saliamo sul pullmino dotato di una salvifica aria condizionata e ci dirigiamo subito nella vivace Peshawar, a circa 2:30 di autostrada. Depositiamo le valigie e poi ci addentriamo nel centro storico della città di frontiera (siamo a circa 60 km dal confine con l'Afghanistan) che si conferma una delle mie preferite in assoluto tra tutte quelle che ho visto. Vediamo l'iconica torre dell'orologio, la più antica moschea della città e gli edifici architettonicamente più antichi e interessanti, tra cui anche palazzi sorprendentemente in stile Art Deco e una bella haveli (abitazione signorile antica, con cortile interno decorato, fata erigere da una famiglia di ricchi commercianti, in cui l'ultimo discendente ci accoglie). Ma ciò che rende Peshawar speciale è la sua gente, prevalentemente di etnia Pashtun (la stessa dei Talebani d'oltre confine): tutti sono gentilissimi e sorridenti, spesso sono i primi a chiedere di essere fotografati, al punto che la piccola scorta militare (assegnataci d'ufficio dalla polizia locale, cosa che non sempre avviene) appare completamente inutile. Infatti, pure i militari sono sorridenti e divertiti, sembra che anche loro si godano il nostro gironzolare tra stradine e bancarelle, reso faticoso solo dall'afa opprimente. L'unica cosa che stona è l'evidente ruolo sociale secondario riservato alle donne, molto meno presenti nelle strade e non di rado ricoperte dalla testa ai piedi dal burqa. Chiudiamo con una buona cena, in cui cominciamo a prendere dimestichezza con i forti sapori della cucina locale, in un ristorante molto affollato e con alberi decorati da luci (a breve si terranno i festeggiamenti per l'anniversario dell'indipendenza) che oltre alle tavolate come le nostre offre anche la possibilità di mangiare in "stile tradizionale" sedendosi su tappeti e cuscini. Qui le donne del nostro gruppo sono le uniche presenze femminili, mentre in un ristorante a fianco del nostro, evidentemente più destinato ai gruppi familiari, ce ne sono diverse.
C'è chi mi chiede se non sia noioso ritornare negli stessi posti già visitati, ma non credo che avrò mai questo problema con Peshawar.
GIORNO 2
La seconda (e ultima) giornata dedicata a Peshawar comincia con una visita ad una fermata per autobus. Cosa ci potrà mai essere di così interessante? Niente, a parte i veicoli più belli del mondo, cioè le coloratissime e decoratissime corriere locali, letteralmente tempestate da ninnoli di ogni foggia e genere, compresi disorientanti specchietti, catenelle tintinnanti, assurdi catafalchi e girandole di catarifrangenti, un festival del kitsch che prosegue senza sosta anche all'interno dei bus, al punto che ci si chiede l'autista cosa riesca a vedere della strada, contornato com'è di ingombranti ninnoli ciondolanti. Non paghi di averli ammirati ed essere pure saliti sul tetto di uno di questi mezzi, ci concediamo anche il lusso di una "corsa", in cui l'assenza di finestrini ci da un po' di tregua dalla calura.
Scesi dallo scintillante re della strada, siamo in una zona artigianale in cui si trovano diverse fabbriche di armi, un'attività produttiva che per decenni ha tratto linfa dai conflitti nel vicino Afghanistan ma che, visto come va il mondo, non faticherà a trovare a trovare sempre nuovi clienti. Lo stabilimento che visitiamo (uno dei pochi che, da disposizioni governative, è possibile visitare) è specializzato nella riproduzione di pistole Beretta: hanno macchinari abbastanza moderni che producono i pezzi di metallo necessari ma tutta la parte di assemblaggio e perfezionamento dei singoli pezzi viene ancora svolta a mano, per lo più limando i pezzi frazioni di millimetro alla volta. In seguito non ci facciamo mancare una capatina in uno dei negozi della zona, in cui possiamo maneggiare mitragliatrici e altri ammennicoli del genere.
La visita successiva è presso un'enorme officina dove si riparano, ma soprattutto si decorano, gli spettacolari bus e camion ammirati in precedenza. Gli artisti del pennello (questo tipo di lavorazione viene infatti chiamata "truck art") sono all'opera e, oltre ad ammirarne la tecnica esecutiva fatta di veloci ma sicuri colpi di pennello, non passa molto che qualcuno chieda di vedere il proprio nome dipinto su una fiancata assieme agli altri decori, richiesta soddisfatta senza difficoltà sotto gli occhi divertiti dei tanti operai dell'officina.
In seguito andiamo al "mercato dei contrabbandieri", dove per lustri sono transitate le merci oggetto di embargo ma ugualmente destinate all'Afghanistan. Non so se tali divieti siano tuttora esistenti ma il mercato in questione è pienamente attivo ma poiché vende principalmente oggetti utilitaristici non risulta particolarmente interessante dal nostro punto di vista.
Dopo esserci adeguatamente rifocillati (e rinfrescati) a pranzo, nel primo pomeriggio ci rechiamo al Museo di Peshawar che detiene la più ricca collezione al mondo di arte del Gandhara, la produzione artistica realizzata successivamente al periodo in cui Alessandro Magno conquistò (e abitò, assieme alle sue truppe, per più di un anno) questa parte di mondo, dalle apparentemente evidenti influenze ellenistiche, riscontrabili soprattutto nelle imponenti statue di Buddha dal profilo decisamente "greco" e dai morbidi drappeggi delle vesti. In realtà, le teorie più accreditate ritengono più importanti i lasciti stilistici di origine cinese e persiana, ma per tutto il secolo scorso il tema dell'influenza europea in una zona così remota dell'Asia ha affascinato archeologi e storici dell'arte occidentali. Non manca, al piano superiore, la sezione dedicata all'arte Kalash: opere decisamente più recenti e rozze ma cariche di una silenziosa intrinseca potenza. Perdonatemi il prolisso excursus, ma l'arte extraeuropea, come ben sa chi mi conosce, ha sempre esercitato su di me un forte interesse.
Non ci resta che recarci nell'ultima tappa giornaliera, il mercato dei ricambi d'auto, una "chicca" che avevo scoperto in precedenza durante una mia esplorazione in solitaria. Proprio per questo è un posto che nemmeno la nostra guida locale conosce perfettamente, ci porta nella zona giusta ma non nel posto preciso che avevo scovato anni fa e che adesso non ho tempo di andare a cercare con calma. Poco male perché anche quello che vediamo, cioè montagne di pezzi di metallo e parti di motore appoggiati su pavimenti sporchi di grasso d'auto annerito che lasciano solo angusti passaggi, costituisce comunque una fantastica quinta per la variegata umanità che popola questi vicoli, dove immancabilmente diventiamo l'attrazione della giornata e ci vediamo regolarmente invitati a bere una tazza di tè. Mi sento come un pisello nel suo baccello.
Visto che è ancora presto per dichiarare chiusa la giornata, ricordo alla guida che nel mio viaggio precedente avevo visitato un negozio di tappeti e stoffe antiche in cui avevo trovato alcuni abiti tradizionali finemente ricamati, provenienti dal Turkmenistan, e uno l'avevo portato in Italia con me. Trovato un negozio simile, il commerciante ci mostra i suoi tappeti e subito sembra la classica "tappa souvenir" dei tour turistici ma poi lo sollecito a mostrarci gli abiti antichi che ha e rivedo alcuni di quei capolavori che mi avevano già mostrato in passato, a dimostrazione che non sono oggetti che vanno via come il pane. Ma la parte più surreale deve ancora venire: mi sovviene di aver letto, successivamente alla mia prima visita, un articolo sui cosiddetti war rugs, cioè i tappeti con soggetti bellici prodotti durante e dopo l'occupazione russa dell'Afghanistan (attualmente esibiti al British Museum). Dietro mia insistente richiesta, il commerciante sfodera alcuni di questi tappeti, letteralmente tempestati di carri armati, elicotteri, bombe a mano e kalashnikov. Ve n'è perfino uno macabro con gli aerei che si schiantano contro le Torri Gemelle di New York ma anche uno di segno opposto (evidentemente destinato ai presumo pochi turisti americani che capitano a queste latitudini) in cui si definisce l'11 settembre come "Patriot Day" con la didascalia "we will never forget". Non mi sono lasciato sfuggire l'occasione e dopo una serrata trattativa (al termine della quale il commerciante mi ha detto di avermelo venduto a un quarto del suo valore di mercato, credibile come un venditore di tappeti), presto uno di questi manufatti prenderà il mio stesso volo di rientro.
GIORNO 3
Giornata di lungo trasferimento da Peshawar a Chitral. Alla prima sosta presso un posto di controllo, oltre a farci aspettare una mezz'oretta, ci danno istruzioni sulla direzione da prendere per non incappare in strade chiuse a causa le alluvioni delle settimane scorse. Gli spostamenti odierni ci fanno anche capire meglio l'operato della scorta che ci è stata fornita: in linea di massima ci precede e ci agevola spesso nei sorpassi intimando agli altri mezzi di darci la precedenza, un privilegio non di poco conto visto il traffico riscontato in alcune cittadine. Giunta al termine del tratto di propria competenza, subentra "al volo" la nuova scorta e via così fino alla prossima. Ma ai numerosi posti di controllo, i privilegi diventano rallentamenti: il nostro passaggio deve esere registrato e la cosa comporta regolarmente delle perdite di tempo che si accumulano. Quella che non cambia è la curiosità dei Pakistani, sempre pronti a salutarci, farci qualche basica domanda e chiedere di essere fotografati, da soli o in nostra compagnia.
In serata chiedo alla nostra guida il perché della scorta, una precauzione che non mi era stata mai concessa in precedenza. È una misura emanata dal governo all'indomani degli ultimi scontri fra India e Pakistan: secondo la versione governativa, l'India, che attualmente è il riferimento economico dell'Afghanistan, starebbe addestrando gli Afghani a compiere atti di terrorismo nei confronti dei turisti stranieri. Non voglio sembrare la persona spezzante del pericolo che non sono, ma mi dà l'impressione di una teoria piuttosto traballante e col fine ultimo di gettare discredito sul potente e odiato vicino orientale.
Nel frattempo cominciamo a salire di altitudine e per fortuna il clima comincia a farsi via via più fresco. Durante l'attraversamento della valle del fiume Swat, dalle torbide e fragorose acque, noto casualmente un gruppo di camion stracolmi e faccio fermare il pullmino. È una pesa dove vengono pesati i voluminosissimi carichi di paglia che questi camion trasportano, stipati sui mezzi in un modo che sembra sfidare le leggi della fisica, uscendo ampiamente dal perimetro del mezzo sia in altezza che lateralmente, grazie a delle assi di legno che ne ampliano la capacità di carico. Le foto, per quanto possano dare un'idea, non fanno cogliere appieno l'apparente precarietà che si percepisce nel vedere da vicino questi mezzi.
Giunti a Dir pranziamo e poi ripartiamo su tre jeep (il pullmino lo ritroveremo in seguito, quando entreremo nella Karakorum Highway) perché da lì a poco comincia lo sterrato. Attraversiamo il lungo tunnel di Lowari (10,5 km), vanto dell'ingegneria pakistana che ci risparmia i numerosi tornanti della vecchia strada per Chitral ma poi la sua efficacia viene in buona parte inficiata da diversi km di strada in pessimo stato. Giunti finalmente in albergo, ceniamo il prima possibile presso un ristorante dotato di una fresca terrazza che si affaccia sulle turbolente acque del fiume.
GIORNO 4
Partiamo da Chitral per raggiungere le valli di Bumburet e Rumbur abitate dai Kalash. Dopo un primo tratto di strada asfaltata che costeggia il largo letto del fiume Chitral, deviamo sull'altra sponda e già nella cittadina di Ayun la strada diventa stretta e malconcia, poi proseguendo comincia a inerpicarsi e sembra sempre più scavata nella roccia con ben poco spazio di manovra, costringendoci a passaggi alternati quando s'incontrano altri mezzi. Al nostro fianco si alternano precipizi e canali di irrigazione in cui l'acqua scorre con inusitata potenza. Poi il percorso diventa meno sassoso e più pianeggiante e in ombra, significa che ormai stiamo percorrendo la strada sterrata di fondo valle che porta ai villaggi Kalash. Dopo circa tre ore di guida decisamente impegnativa giungiamo presso il nostro alberghetto nel villaggio di Brun nella valle di Bumburet.
I Kalash sono una piccola minoranza etnica (circa 3.000 persone), l'unica del Pakistan a essere animista e non professare la religione islamica, anche se vi sono già avvisaglie della loro lenta ma progressiva islamizzazione. Chiamati anche Kafiri ("infedeli"), gli uomini sono difficilmente distinguibili dagli altri Pakistani, a differenza delle donne, rinomate per i vestiti colorati e i tipici copricapi decorati da variopinte perline, che sono il vero motivo per cui i turisti, anche interni, giungono fin qua. La presenza di diversi Kalash con tratti somatici simili a quelli europei come incarnato, capelli e occhi chiari, per anni ha alimentato la leggenda che fossero i discendenti di un fantomatico battaglione di Alessandro Magno che non era più rientrato in Grecia, ma recenti studi genetici hanno smentito questa teoria individuando i loro più remoti antenati come provenienti dalle steppe vicino ai Monti Urali nella Russia europea.
Le prime Kalash che incontriamo sono le tre giovani figlie del nostro contatto locale che, anche se non paiono perfettamente a loro agio, si lasciano fotografare, probabilmente già consapevoli che è proprio questo che porta visitatori e il relativo indotto. Per secoli i Kalash hanno vissuto di agricoltura ma hanno saputo adattarsi all'imprevista svolta portata dal turismo, come dimostra il crescente numero di alberghetti, guest house, ristoranti e campeggi. Visitiamo il villaggio di Anish, con i negozi lungo la strada principale a fianco del fiume e le abitazioni in posizioni più sopraelevate, anche per sfuggire alle cicliche alluvioni causate dal fiume, come sempre accade a queste latitudini croce e delizia. Le case tradizionali sono costruite con sassi nelle parti inferiori e legno in quelle superiori, due materiali che qua abbondano e la cui sapiente combinazione consente di realizzare strutture in grado di resistere anche ai forti terremoti endemici nell'area himalayana. Sono spesso quasi addossate l'una all'altra lungo il fianco della montagna, collegate da tante scale. Vi sono anche alcune "camere mortuarie", riconoscibili da due teste di ariete poste ai lati dell'ingresso: è il luogo dove viene reso l'ultimo saluto ai defunti con musica e danze che durano un paio di giorni. Visitiamo anche un cimitero, dove alcuni charpai (letti tradizionali indiani) indicano il luogo in cui è stato seppellito qualcuno, mentre solo le famiglie più facoltose possono permettersi di far realizzare grandi statue di legno come la coppia presente in questo camposanto.
Seguendo lo stretto sentiero che fiancheggia il canale di irrigazione sopra ai campi, giungiamo nel villaggio di Brun dove la vita scorre con l'identica lentezza. Oltre a incrociare diverse bimbe, ragazze e donne in abiti tradizionali, capitiamo in una casa mentre si tiene un incontro per dare indicazioni di carattere agricolo. Ci fa specie che l'audience sia costituita esclusivamente da donne, ma pare che qua l'agricoltura sia un compito principalmente femminile e che spesso siano anche le proprietarie dei terreni. Poi visitiamo la casa in cui alloggiai quando venni tre anni fa. Non per nostalgia ma perché la proprietaria di casa è nota per essere una produttrice di vino, che un paio di noi assaggia (e apprezza). Il succo d'uva è considerata una bevanda rituale, non viene consumato normalmente ma solo in occasione del solstizio d'inverno, ubriacandosi per avvicinarsi alle divinità. Conosco qualche ateo delle mie parti che ogni tanto pratica lo stesso rito. Scendendo verso valle, riconosco la ragazza che abitava nella casa in cui pernottai e sono in grado di mostrarle la foto che le feci 3 anni fa. Chissà che non ci si riveda ancora.
Per cena ritorniamo presso l'abitazione in cui si teneva quel meeting e, dopo esserci finalmente goduti una frescura serale (siamo a circa 2000 mslm) che da tempo agognavamo, ci viene servita la cena, tutta rigorosamente preparata con prodotti locali (tra cui una specie di pane rotondo imbottito di carne), come orgogliosamente ci fa presente una delle ragazze di casa. Mentre torniamo al nostro alloggio, passiamo davanti a un locale da cui proviene musica eseguita dal vivo, in onore (probabilmente remunerato) di un nutrito gruppo di turisti spagnoli a cui ci uniamo per un paio di canzoni. Poi tutti a nanna, che finalmente col fresco la notte è più piacevole.
GIORNO 5
Seconda giornata in territorio Kalash in cui ci spostiamo nell'attigua valle di Rumbur. La via per arrivarci (non riesco a chiamarla strada) è veramente infame: piena di sassi, un lato letteralmente scavato nella roccia e l'altro spesso a strapiombo sul fiume. Come se non bastasse, permette al massimo il passaggio di un'auto alla volta e tocca trovare uno spazio più largo se qualcuno proviene dal senso opposto, senza dimenticare gli strettissimi tornanti e passaggi nei villaggi. Per giungere fino a qua bisogna davvero essere motivati.
Il villaggio che visitiamo non differisce da quelli dell'altra valle ma le ragazze sembrano meno abituate al turismo: alcune di loro stanno lavando i panni in un ruscello e non appena si vedono inquadrate da una macchina fotografica si coprono il volto con una mano. Proseguendo il giro nelle abitazioni s'incontrano soggetti meno timidi ma rimane l'impressione di una comunità poco abituata alle visite di forestieri. Poi saliamo su una ripida collina costellata di abitazioni tradizionali, dove trovo un negozietto in cui una signora del posto vende cappelli e abbigliamento locale di sua produzione, dove acquisto un copricapo Kalash festivo, ricoperto di cauri.
Rientrati nella valle di Bumburet, dopo pranzo visitiamo il centro, costruito grazie all'aiuto dei Greci, che ospita l'interessante museo etnografico, un ospedale e altri servizi per la comunità. Tappa successiva al villaggio di Karakal in cui visitiamo l'antico cimitero ricolmo di bare di legno aperte (all'interno di una di esse ci sono ancora delle ossa). I Kalash, una volta portata la bara al cimitero, considerano estinto il loro rapporto col defunto e non lo vanno mai più a visitare ma avevano l'abitudine di seppellire i defunti coi propri migliori abiti e gioielli, cosa che ha attirato le attenzioni dei ladruncoli, un'eventualità che - in una comunità da sempre isolata e abituata a una vita semplice ma onesta - non era stata presa nemmeno in considerazione. Le strade del villaggio sono popolate di gente e c'è un gruppo di donne di varie età davanti alla bahali (la casa delle donne), in cui possono accedere solo le donne incinte (bisognose di cure parentali) o con le mestruazioni (considerate impure, se invece restano a casa devono comunque andare a lavarsi i capelli al fiume, per lo stesso motivo).
In fondo alla valle c'è il villaggio di Shakhanandeh, che pochissimi visitano anche perché è abitato da un'etnia (che dovrebbe chiamarsi Katè ma fatico a trovare conferme) fortemente islamica e che non gradisce né di essere visitata né tantomeno di essere fotografata. Nel mio viaggio precedente, essendo da solo, attraversai il villaggio e il massimo che ricevetti fu qualche timido cenno di saluto. Stavolta, essendo in gruppo, ci limitiamo a parcheggiare fuori dal villaggio e a rimanere lontani dalle abitazioni. Incontriamo uno che è disposto a parlare con noi: è il maestro della scuola locale, ha studiato a Peshawar e forse per questo è di mentalità un po' meno chiusa. Ci dice che loro venivano definiti Kafiri Rossi e i Kalash come Kafiri Neri. Abitavano nel Kafiristan (ora Nuristan, una regione dell'Afghanistan) ed erano animisti come i Kalash, poi vennero spinti a spostarsi in questa valle e a diventare musulmani, cosa che col tempo accettarono. Secondo un antropologo inglese che fece appena in tempo a conoscerli a fine '800, erano una popolazione completamente isolata dal resto del mondo, che campava di agricoltura di sussistenza e baratto, raggiungibile solo a piedi data l'inesistenza di sentieri per animali da soma. Un isolamento che evidentemente cercano di mantenere tutt'ora, cosa sempre più difficile con televisori e telefonini alla portata di tutti. Quando gli dico che ero stato nel suo villaggio tre anni fa, dice di ricordarsi vagamente di me: non so se è una balla per dimostrarsi cortese o se passano talmente pochi stranieri da ricordarseli anche dopo così tanto tempo.
GIORNO 6 e 7
Partiamo dalla valle di Bumburet e percorriamo la strada a ritroso fino a Chitral, non visitata in precedenza. La prima sosta è presso la maggiore moschea cittadina ma più che la sua architettura mi affascina vedere all'opera i giovani allievi della madrassa (scuola coranica) che recitano a memoria passi del Corano. Mentre pronunciano le sure, ondeggiano avanti e indietro come ho visto varie volte nei documentari sui Talebani e l'estremismo islamico. Ma è solo un condizionamento mentale generato da quelle visioni, i ragazzi ci guardano con la curiosità tipica della loro età e non riescono a trattenere dei sorrisi divertiti quando si vedono inquadrati da una macchina fotografica. Segue una passeggiata nel vivace mercato locale prima di riprendere la strada.
Dopo molte ore di viaggio parzialmente attenuate dai maestosi paesaggi che attraversiamo, facciamo sosta presso un belvedere da cui si scorge un tratto della catena del Karakorum, poi giungiamo a Parwak, dove pernottiamo in una guest house aperta da un ex-ufficiale dell'esercito campione di diverse discipline, fatto testimoniato da diversi trofei di polo, cricket e hockey su prato sparsi in giro. Dal giardino godiamo della vista di un pezzo della catena del Karakorum e di una fresca temperatura.
Il giorno seguente abbiamo ancora parecchia strada da percorrere a bordo delle nostre jeep. Rallentati da una piccola frana (generata da una ruspa al lavoro per impedirne altre) che liberiamo a mano assieme ai nostri autisti, giungiamo ai 3.720m dello Shandur Pass (dove si trova il Khalti Lake e il campo da polo più alto del mondo) presso il quale facciamo pausa sotto una tenda mentre comincia a cadere qualche goccia, un falso allarme che non si tramuta in realtà. Scendendo attraverso la Laspur Valley e la Phander Valley di cui ammiriamo la grandiosità, in serata giungiamo infine a Ghizer. Tanta la strada masticata in questi due giorni. Si poteva farne a meno?
Roccia e Acqua. Acqua e Roccia. Roccia e Acqua. Questa è la litania paesaggistica che si è dipanata ininterrottamente sotto ai miei occhi in queste due giornate con molti chilometri percorsi a fronte di poche visite. È un continuo susseguirsi di vallate costituite da alte pareti e impetuose acque a fondovalle. I due elementi giganteggiano su ogni aspetto del territorio e sembrano contendersi di continuo lo scettro di chi più incide sulle vite dei suoi abitanti (e visitatori). Da un lato c'è la Roccia: imponente, che ti guarda dall'alto di almeno 5/6.000 metri e rende gli spostamenti maledettamente complicati, genera strade che costringono i veicoli ad andature da mezzo a trazione animale del medioevo, a volte fa tremare tutto creando sconquassi ma sa anche essere generosa, regalando fertili valli, materiale edile in gran quantità e perfino pietre preziose. Ma ha le sue debolezze, non è solida come vuol farti credere, bastano le piogge del monsone estivo per renderla instabile come un castello di carte e dare origine a frane e disastri.
Dall'altro lato c'è l'Acqua, apparentemente amica, donatrice di vita e di refrigerio estivo, ma anche non meno pericolosa della sua controparte, spesso causa di catastrofiche alluvioni. Basta guardare la potenza con la quale i fiumi percorrono il fondo delle valli in questo periodo dell'anno: quasi sempre le acque, torbide per la terra che trascinano con loro, generano rapide di inaudita violenza, con alte onde sbruffanti e ingorghi come un mare in tempesta, generando un continuo e inquietante fragore. Sembrano due pesi massimi che si combattono sul ring: la Roccia ricorda il poderoso George Foreman che soffre il lavoro ai fianchi, mentre l'Acqua è assimilabile a Mohamed Alì, che vola come una farfalla e punge come un'ape.
Il nord del Pakistan è la loro "Rumble in the Jungle" e chi lo vuole percorrere non può che piegarsi a queste forze inarginabili che rendono l'attraversamento di questa parte di mondo un calvario: impervie strade sassose che non possono essere percorse a più di 15 km/h; verticali precipizi in sostituzione del bordo della careggiata; strettoie e traballanti ponti sospesi che costringono a passaggi alternati; frane di cui - per fortuna - vediamo solo l'effetto finale, con massi grandi come automobili che hanno accartocciato il guardrail come fosse un foglio di carta stagnola; diverse interruzioni per lavori in corso con ruspe che bloccano tutto per svariati minuti. Come se ciò non bastasse, dobbiamo fare sosta ad ogni check point della polizia che deve registrare il nostro passaggio. Chi vuole godere delle bellezze e dell'autenticità di questo tormentato territorio non può essere esentato dal bere dall'amaro calice della sua impietosa logistica, che è ha contribuito a forgiarne l'unicità.
GIORNO 8
Si parte di buon'ora anche se oggi si dovrebbero fare meno chilometri ma non si sa mai quello che potrebbe succedere lungo il percorso, infatti dopo un po' rimaniamo bloccati da dei lavori in corso: due ruspe stanno lavorando e ci tocca aspettare il nostro turno per proseguire, assieme a decine di altri mezzi, tra cui un pulmino che sul tetto ha una capra legata assieme alle valigie. Dopo aver attraversato diverse vallate regolarmente percorse da fiumi gorgoglianti, facciamo sosta presso un posto di pausa dove ci servono un ottimo pane appena sfornato, poi riprendiamo la strada fino a quando non giungiamo, all'altezza di Gilgit, sulla famosa Karakorum Highway, la strada asfaltata più alta del mondo che attraversi un confine internazionale, nello specifico il passo Khunjerab (4,693 mslm) che delimita il confine con la Cina.
Realizzata sui percorsi dell'antica Via della Seta, per vederla ultimata ci sono voluti 20 anni (inaugurata nel 1978) e oltre 1000 morti, più che altro per le frane verificatesi durante i lavori. È lunga circa 1.200 km da Islamabad a Kashgar (nella provincia cinese dello Xinjiang) e unisce il Pakistan con il potente vicino non solo commercialmente ma anche politicamente. Tramite questa iconica strada si raggiungono alcune delle montagne più alte del mondo, tra i quali il K2 e il Nanga Parbat. La KKH, come viene detta in breve, non è proprio come ce l'aspettiamo: una mia compagna di viaggio si aspettava una vera e propria autostrada con tanto di spettacolari viadotti, io ho sempre pensato fosse una strada avventurosa e difficile da percorrere. Invece è una strada a corsia singole, più o meno come da noi le strade provinciali, ma è in asfalto e ben tenuta, basta questo per renderla, da queste parti, una strada superiore alla media, anche se d'inverno rimane spesso chiusa per le forti nevicate e d'estate le piogge monsoniche fanno il resto.
Dopo pochi chilometri, ci fermiamo presso un view point da dove sulla montagna a sinistra della strada si ammira un antico tratto della Via della Seta, ora abbandonato dopo la realizzazione della Karakorum Highway, che si inerpica in maniera a dir poco ardita sui fianchi delle ripide mura di roccia che affiancano la valle. Si rimane ammirati dall'incredibile opera svolta da chi realizzò tali percorsi che sembrano sfidare le leggi della fisica, ma anche dispiaciuti perché tale meraviglia ingegneristica, danneggiata in più punti dalle immancabili frane che caratterizzano questo territorio, è ormai abbandonata a sé stessa perché non ha più senso restaurarla. Sull'altro lato della valle si può ammirare la cima innevata del Monte Rakaposhi che coi suoi 7.788 metri è una delle cime più alte della catena montuosa del Karakorum.
Dopo non molto giungiamo a Karimabad, il capoluogo del distretto di Hunza, posta a 2.500 mslm e dove trascorreremo un paio di notti, di cui visitiamo la rocca di Altit, un antico edificio fortificato posizionato su uno sperone roccioso che domina la vallata e da cui si gode di una vista spettacolare. Per accedere alla fortezza si attraversa un villaggio (il più antico del Pakistan ci dice la guida) che dovrebbe avere la stessa età della torre principale del forte, databile attorno al 1100 d.C., che ormai, colma com'è di negozi per turisti, assomiglia un po' a San Marino. Visitiamo la fortezza grazie alle delucidazioni di una simpatica guida locale che, una volta sul tetto prospiciente alla torre principale, si produce in un inaspettato siparietto: con in mano uno smart phone filma il nostro gruppo muovendosi su e giù per il tetto, mimando le inquadrature che potrebbe fare un drone. Mentre assistiamo divertiti alle evoluzioni della guida, noto che una guardia presente si gusta la scena con il sorriso sulle labbra. Infatti, appena la guida finisce il suo show, fa la stessa cosa anche lui, in una specie di gara con il suo collega su chi fa il video più bello. L'espressione di gioia fanciullesca che si stampa sul suo volto durante l'intera ripresa acrobatica è uno dei ricordi più indelebili di questo viaggio.
Uscendo dalla fortezza ci imbattiamo in una coppia di sposi locali che si fa fotografare nel giardino attorno alla fortezza. Mentre ci allontaniamo dal villaggio, noto l'ennesima targa che riporta il nome dell'Aga Khan, che dal 1957 (da poco scomparso) è l'imam dei musulmani Ismailiti Nizariti (la seconda corrente più numerosa all'interno dell'Islam sciita professata da circa 15 milioni di fedeli che non praticano il proselitismo), che da queste parti ha molti seguaci, come testimoniano le frequenti bandiere nere (simbolo dell'Islam sciita) issate sulle moschee.
GIORNO 9
Partiamo presto perché nella Valle di Hunza ci sono parecchie cose da vedere. La prima è la Roccia Sacra della Hunza Valley, un sito archeologico che contiene incisioni rupestri di epoca preistorica (ma usata anche successivamente, almeno fino all'VIII secolo d.C.) su una roccia alta una decina di metri, proprio a fianco della Karakorum Highway, che rappresentano soprattutto degli ibex, le capre locali dalle grandi corna che somigliano molto ai nostri stambecchi.
Dopo pochi chilometri siamo al cospetto del Lago Attabad, rinomato per le acque turchesi. A vederlo pare un delizioso e placido lago di montagna, pieno di quelli che sembrano dei pedalò coi quali godersi il fresco estivo. In realtà la sua breve storia è tutt'altro che idilliaca. Lo specchio d'acqua è stato originato da una grossa frana verificatasi a gennaio 2010, la quale fece 20 vittime, costrinse 6000 persone a spostarsi e bloccò il fiume Hunza per 5 mesi, dopodiché l'acqua raggiunse il livello della frana e cominciò a defluire. La Karakorum Highway venne sommersa per un tratto di 19 km e l'unico modo per raggiungere i circa 25.000 abitanti dei villaggi della zona che non erano stati sfollati fu con delle imbarcazioni. 5 anni dopo, con l'aiuto della Cina, venne completato un nuovo percorso di 24 km all'interno del quale sono state realizzate 5 gallerie complessivamente lunghe 7 km, che è quello tuttora in uso.
La sosta successiva ci pone di fronte alla grandiosità del gruppo di picchi appuntiti, che paiono giganteschi denti canini, del monte Tupopdan, più noti come Passu Cones o Passu Cathedral. Non è la montagna più alta del Karakorum (6.106) ma è universalmente considerata una delle più scenografiche, la cui bellezza si può ammirare già da distanza perché non ostruita da altre vette e utilizzata come spettacolare quinta per foto sulla Karakorum Highway. Dallo stesso view point si può ammirare il Ghiacciaio Passu, che si sviluppa per poco più di 20 km di lunghezza (e 115 di estensione) ai piedi del Monte Passu, il cui ghiaccio piuttosto bianco rivela l'assenza di morene e inquinamento. Sarebbe raggiungibile avvicinandosi in auto per un'ora e poi a piedi per un'altra mezz'ora ma abbiamo altre visite in programma. Poco dopo facciamo sosta presso un campo da cricket in cui si sta svolgendo una partita, letteralmente ai piedi delle aguzze vette: uno scenario strepitoso per lo sport più popolare del Pakistan.
In seguito raggiungiamo il villaggio di Hussaini, dove da tempo sorge uno dei ponti sospesi più belli ed emozionanti di queste latitudini. Lungo 194 metri e alto fino a 45 metri sul pelo dell'acqua, scavalca il fiume Hunza per portare al villaggio di Zarabod sull'altra riva. Costruito nel 1968, venne danneggiato dalla stessa frana che originò il lago Attabad e venne restaurato nel 2013 lasciando gli stessi larghi spazi tra un'asse di legno e l'altra, un metodo per impedire che si generi un “effetto vela” che lo faccia ondeggiare troppo. Ne consegue che l'attraversamento non è dei più semplici: ci si può tenere con le mani ai cavi d'acciaio e vengono forniti anche dei giubbotti salvagente, ma mi chiedo a cosa possano servire nel malaugurato caso in cui qualcuno cadesse in acqua: anche se non si affonda, ci si ritroverebbe comunque costretti ad affrontare le violente rapide che caratterizzano tutti i fiumi in questo periodo dell'anno. Non a caso una rivista americana lo inserì tra i ponti più pericolosi del mondo. Comunque, tutte le donne del nostro gruppo hanno affrontato tutta o parte della sua attraversata, mentre gli uomini, me compreso, sono rimasti con i piedi ben piantati sulla terraferma.
Rientriamo verso Karimabad per inoltrarci nell'attigua valle di Nagar, che è costellata di alberi di albicocchi, attraverso una tortuosa stradina in cui, incontriamo fortuitamente uno dei nostri autisti precedenti. È stagione di raccolta, ci fermiamo presso delle ragazze che raccolgono i frutti dall'albero che poi verranno aperti in due e messi ad essiccare su vassoi lasciati al sole, di norma sui tetti delle basse abitazioni locali. Dopo circa un'ora e mezza di auto e un paio di piccoli villaggi, giungiamo al cospetto del ghiacciaio Hoper (o Hopper), che sorge ai piedi di un complesso di cime che comprende i monti Spantik e Ultar Sar. In realtà non è un solo ghiacciaio ma piuttosto un insieme di cinque ghiacciai, di cui noi vediamo la lingua finale che è una morena piuttosto scura, ricca com'è di ghiaia e residui di roccia trascinati dalla lenta discesa del ghiaccio. Lo scenario che si offre ai nostri occhi è a dir poco grandioso fin dal primo view point. Mentre ci spostiamo su uno stretto sentiero di montagna verso quello più vicino alle vette, scatta una rissa tra due locali, a cui alcuni presenti cercano invano di mettere fine: dopo esserci colpiti con dei pugni, uno dei due scaglia l'altra giù dal sentiero, che però si ferma dopo pochi metri. E dire che la veduta di questi paesaggi maestosi dovrebbe farci capire quanto siamo insignificanti e tenerci coi piedi per terra...
Rientrati al nostro mezzo dopo esserci gustati l'onnipresente tè verde, volendo c'è modo di fare acquisti. Ci sono alcune bancarelle che offrono pietre preziose e semipreziose, ricavate da miniere locali: lapislazzuli, rubini, acquamarina, smeraldi, tormaline, granati e chi più ne ha più ne metta. A conferma della vocazione estrattiva della valle, sulla via del rientro facciamo un'ultima sosta presso una cava di marmo abbandonata, prima di goderci in serata la “cena organica” offerta da un ristorante locale più ricercato del solito, dove abbiamo potuto sperimentare qualche piatto diverso dal solito terzetto riso/pollo/lenticchie che ci viene regolarmente proposto da inizio viaggio.
GIORNO 10
Giornata non prevista in sede di programmazione dell'itinerario ma modificata in corso di viaggio dopo aver saputo che lungo la strada del rientro si è verificata una grossa frana e non sapevamo se sarebbe stata riaperta in tempo. Avevamo quindi deciso di raggiungere la città di Skardu dove abbiamo prenotato un volo per Islamabad: sul volo del martedì non ci sono sufficienti posti liberi, dobbiamo quindi prenotare su quello del mercoledì.
Di nuovo partenza anticipata perché per raggiungere Skardu servono comunque circa 6 ore di viaggio e, visto che dobbiamo recarci in una zona non preventivata, vogliamo comunque approfittarne per visitare qualcosa. Spezziamo il trasferimento con una sosta presso un ristorantino dove il pane è freschissimo ma se si sta vicino all'impetuosissimo fiumiciattolo si fa fatica a sentire la propria voce, se si sta appena cinque metri più riparati ci si fa mangiare dalle mosche, nonostante abbia preso in prestito lo scacciamosche al proprietario e ne faccia uso adeguato. Proseguendo, quando siamo nella Valle di Shigar, notiamo delle rocce inconsuete, con delle striature bianche, ma la nostra curiosità finisce lì. Più tardi, la guida ci fa fermare dove si vedono diverse piccole miniere, realizzate su pareti talmente verticali che ci chiediamo come facciano i minatori a raggiungerle e notiamo che gli scavi sono sempre in corrispondenza di quelle strisce di roccia bianca. È proprio lì che i minatori affondano i propri picconi per estrarre topazi, tormalina, acquamarina e granati.
Più avanti facciamo sosta presso un belvedere dove è stata innalzata una scritta che recita “Beautiful Baltistan – Love Pakistan” e mentre noi ci concentriamo più sul vicino fiume Indo che in questo punto è talmente largo da sembrare un lago, tre ragazze adolescenti col velo chiedono alle signore del nostro gruppo di farsi fotografare assieme a loro. Una dimostrazione di apertura verso gli stranieri non consueta per delle donne pakistane, che spero sia un segno che le cose stanno lentamente cambiando.
In seguito giungiamo presso i laghi Kachura, situati a circa 2.500 mslm. Il primo che vediamo, il Lower Kachura, viene pomposamente chiamato anche lago Shangri-La (il nome del luogo immaginario raccontato da uno scrittore inglese ottocentesco, diventato sinonimo di “Eden”) ma, oltre a essere piuttosto piccolo, è circondato da una cittadina che cerca palesemente di sfruttarne il potenziale turistico, non a caso sulle sue rive sorge un resort chiamato Shangri-La. Più bello l'Upper Kachura, raggiunto con una breve camminata che attraversa un villaggio anch'esso dedito alla raccolta delle albicocche, decisamente più grande e selvaggio, sulle rive del quale ci concediamo una pausa ristoratrice dalle calde temperature, anche se i tanti ragazzi che si tuffano ma soprattutto i motoscafi che fanno continue derapate che fanno cacciare urletti ai turisti locali tolgono un po' della poesia del posto.
Ultima tappa giornaliera presso il deserto di Sarfaranga (che tutti chiamano così tranne wikipedia), uno dei deserti più alti (siamo a 2.226 mslm) e freddi (in inverno raggiunge i -17°, in piena estate le massime si attestano attorno ai 24°) del mondo. Lo vediamo dall'altra riva del fiume Indo e seguendo la strada asfaltata giungiamo in un punto piatto e di nessun interesse paesaggistico che pullula di quad, cavalli e altri modi per “godere” il deserto che non ci interessano. Vorremmo vedere le dune da vicino, ma ci dicono che non si può andarci perché un mese fa una jeep si è capottata e una turista ha avuto la peggio. Possiamo però cercare di avvicinarci il più possibile col nostro pullmino e poi proseguire a piedi. Così facciamo e lasciato il pullmino (che col senno di poi poteva proseguire ancora per un bel pezzetto) ci incamminiamo verso le dune che, come da tradizione, sembrano a portata di mano ma richiedono più tempo del previsto per essere raggiunte. Ovviamente, appena a ridosso della zona più interessante, il sole sparisce dietro una grossa nuvola, privandoci della possibilità di fare foto con la luce migliore, salvo ripresentarsi quando, non potendo tardare oltre, ormai ce ne siamo allontanati. La parte con le dune, di colore bianco/grigio chiaro, non è molto grande (ricorda un po' quelle della Death Valley in California, come dimensioni) ma è circondata da alte montagne, un abbinamento piuttosto inconsueto.
GIORNO 11
Prima di andare all'aeroporto per prendere il volo delle 12:00 per Islamabad c'è comunque tempo per un giro nella città di Skardu, e mettiamo piede in un negozio che ha anche cose antiche, dove chiedo se hanno dei cappelli antichi. Il proprietario, che è il titolare di un negozio simile a Karimabad in cui avevo trovato oggetti interessanti, sfoggia alcuni pezzi antichi spacciandoli per Kalash, ma non assomigliano ai cappelli attualmente in uso, mi sembrano piuttosto dei cappelli Turkmeni, comunque oggetti di qualità e non facili da trovare. Provo a imbastire una trattativa ma i prezzi chiesti sono troppo alti, a cifre che potrei trovare presso antiquari europei o case d'asta. Non c'è verso di abbassare la quotazione che rimane molto simile a quella iniziale, li lascio lì senza rimpianti.
Ci rechiamo all'aeroporto, consegniamo i bagagli e attendiamo che il nostro volo apra l'imbarco. L'aeroporto è piccolo, ha solo due gate e nel pannello delle partenze risultano solo quattro voli in partenza, di cui il primo di giornata è già partito. Quando è tempo di imbarcarci, appare la segnalazione che il nostro volo è stato cancellato: pare che il pilota dell'aereo (che deve ancora partire da Islamabad per arrivare a Skardu e poi rientrare) abbia ritenuto le condizioni atmosferiche non adatte al volo. A Skardu il cielo è nuvoloso ma sereno, forse i problemi meteo sono sulla rotta (che deve comunque sorvolare montagne di oltre 8.000 metri di altezza come il Nanga Parbat). Proviamo a chiedere se nel volo successivo delle 14:15 ci siano posti liberi ma è sold out. Non ci rimane altra scelta che ritirare i bagagli e cercare di raggiungere Islamabad via terra, col pulmino che ci ha portato a Skardu e che era provvidenzialmente rimasto nel parcheggio dell'aeroporto in attesa della nostra partenza, evidentemente pronto per l'evenienza. Il driver del pulmino ci ha raggiunto a Gilgit provenendo dalla strada che era stata colpita dalla frana e ha potuto verificare che è stata aperta al traffico. Però essendoci spostati a Skardu, ora il viaggio di ritorno richiederà 14/15 ore di viaggio e il volo di rientro in Italia è previsto alle 05:25 di giovedì. Non c'è tempo da perdere.
Facciamo poche e veloci soste, più che altro per dare qualche momento di riposo al driver, ma non possiamo fare a meno di rallentare all'altezza della citata frana, davvero devastante: molte abitazioni sono state sommerse dai massi, la strada è ancora in larga parte circondata da pietre e terra umida, segno che è stata rimossa da poco e non si è ancora asciugata, in certi tratti sembra quasi di essere in una galleria senza soffitto, stretti tra alte pareti di detriti spostati giusto per lasciare lo spazio per passare a un'automobile. Situazioni che da Romagnolo allagato ho visto di recente e che hanno toccato anche miei famigliari. Pare che la montagna fosse in osservazione da tempo, che gli abitanti fossero stati avvisati della possibile catastrofe e che le tre vittime siano stati dei curiosi che volevano filmare l'evento. Eppure la gente che vediamo a bordo strada sembra tranquilla e impegnata serenamente nelle proprie occupazioni quotidiane, come se fossero abituati a vivere a contatto con un territorio così temibile e imprevedibile.
La strada, che almeno è in buona parte asfaltata, comincia a salire e, tornante dopo tornante, giungiamo ai 4.173 mlsm del passo Babusar, dove tra il buio ormai calato, la basse temperature esterne e le numerose griglie fumanti di street food attivate da locali che cercano di attirare l'attenzione dei viandanti, sembra di essere stati catapultati in un altro luogo. Poi si scende e si attraversa la vivace Naran, piena di locali illuminati e turisti pakistani giunti fin qua per godersi la frescura di tipo alpino di questa zona. Il territorio spiana, le strade si fanno meno contorte, la guida diventa più facile e alla fine giungiamo in aeroporto un paio d'ore abbondanti prima del nostro volo, riuscendo a ad espletare senza affanno le solite formalità, prima di imbarcarci per l'Italia.
Lascio un paese che avevo in parte già visitato e che ora conosco meglio, anche nella sua parte più settentrionale e complicata da visitare. Non è un viaggio per tutti: le meraviglie del Pakistan del Nord non vengono regalate a chiunque e per poterne godere occorre saper scendere a patti con il suo territorio, consci che è colui che ha reso queste regioni isolate e per certi versi ancora intatte.






























































































