FOTORACCONTO PAKISTAN LUGLIO 2022
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GIORNO 1
Viaggio in solitaria, dove ho adottato il metodo di trovare una guida diversa per ogni singola città/zona che avevo in mente di visitare mentre per gli spostamenti da una zona all'altra mi sono rivolto ai mezzi pubblici, così da non dover aver bisogno di guida e driver per tutto il viaggio. Parto il giorno in cui viene indetto uno sciopero negli aeroporti, nessun volo riesce a partire nella fascia oraria indicata: i voli low cost vengono direttamente cancellati, i voli delle compagnie di bandiera vengono rinviati al temine dello sciopero, e il mio volo è il primo a ripartire. Morale: avevo un lay over piuttosto lungo e, anche se in ritardo rispetto all'orario di arrivo a Dubai previsto, sono perfettamente in tempo per prendere il volo per Lahore. Meno male.
A Lahore, capitale culturale del Pakistan, per prima cosa visito la Moschea Baadshahi (Moschea Imperiale), capolavoro dell'arte moghul, in passato utilizzata come stalla durante la dominazione Sikh. Immancabile la visita al Forte di Lahore, patrimonio dell'Umanità per l'UNESCO, di cui la cosa che più mi rimane impressa è la gigantesca "scala degli elefanti", concepita appositamente per permettere ai pachidermi - utilizzati come mezzo di trasporto - di salire fino ai quartieri reali.
La Città Vecchia di Lahore è un dedalo di affascinanti stradine strette, nelle quali, si trova di tutto: case, negozi ma soprattutto uomini, fra questi anche dei musicisti intenti a suonare non si sa bene per chi, generalmente sorridenti e sempre disponibili a lasciarsi fotografare. C'è anche un vecchietto che tiene in mano una rete all'interno della quale, sopra un piatto di metallo, vi sono alcuni uccellini, paiono passerotti. La guida mi spiega che è tradizione dare qualche spicciolo all'uomo perché li liberi, così che possano portare verso il cielo i propri desideri. Ovviamente gli animali sono addestrati e presto faranno ritorno dal loro padrone e al cibo che fornisce loro.
Una delle visite classiche la compio ai giardini di Shalimar, patrimonio dell'umanità per l'UNESCO. Considerati fra i più complessi tra tutti quelli realizzati dai Moghul, furono costruiti nel 1641 dall’imperatore Shah Jahan (il creatore del Taj Mahal), con la forma di un rettangolo allineato lungo l’asse nord-sud che misura 658 metri per 258, è articolato in tre livelli di terrazze, ciascuno dei quali ha un’altezza di circa 5 metri superiore al precedente. Questa disposizione ha consentito la realizzazione di un ingegnoso sistema di oltre 400 fontane e di cinque spettacolari cascate, comparabile per bellezza ai giardini del Rinascimento italiano, come Villa d’Este a Tivoli, a loro volta ispirati, attraverso gli esempi spagnoli, al modello orientale del «chahar bagh».
Nel tardo pomeriggio assisto a un evento che inseguo da tempo, la surreale cerimonia di ammainabandiera che si svolge ogni sera, poco prima del tramonto, a Wagah, al confine tra India e Pakistan, due paesi perennemente in guerra, a volte apertamente dichiarata, altre volte in modo più strisciante, da quando nel 1947 nacquero come stati indipendenti dalla ripartizione dell’Impero Britannico Indiano. Wagah si trova sulla Gran Trunk Road, un’antichissima strada che da due millenni unisce le aree orientali a quelle occidentali del vasto subcontinente indiano. È stata per decenni l’unica via ufficialmente aperta tra i due paesi, fino a quando nel 1999 non ne è stata aperta un’altra in Kashmir, il territorio conteso tra le due nazioni che è da sempre il motivo principale delle loro dispute armate. Ogni sera l’ammainabandiera è preceduto da una specie di show messo in scena dai soldati delle due opposte fazioni: i Rangers del Pakistan e le Forze di Sicurezza di Confine dell’India. I soldati, dotati di vistosi copricapi che ne enfatizzano le movenze, si sfidano con gesti che trasudano tracotanza e spavalderia, con passi estremamente pronunciati, veloci scatti della testa e mostrando i muscoli al nemico. Alla scena assiste ogni volta una platea di diverse centinaia di spettatori (incitati da capi claque) e turisti, che assistono con la stessa partecipazione che ci si aspetterebbe per una partita della propria Nazionale di calcio, facendo un tifo sfegatato e reagendo ai gesti più provocatori. In teoria il tutto dovrebbe rappresentare l’amicizia e lo spirito di collaborazione fra i due paesi – la cerimonia si conclude con una brusca stretta di mano fra due soldati delle diverse forze e con le bandiere ammainate perfettamente all’unisono – ma nel tempo è aumentata la componente di sfida che inequivocabilmente anima questa strana cerimonia. In passato l'esibito senso di provocazione insito in questa cerimonia è stato ufficialmente criticato dal generale dei Pakistan Rangers che auspicava una riduzione della teatralità delle movenze. Ciò nonostante, il 2 novembre 2014, un teenager si è fatto esplodere sul lato pakistano mentre indossava 5 kg di esplosivo, causando la morte di 60 persone e il ferimento di oltre 100. A “giocare alla guerra” poi finisce che qualcuno non capisce che non è un gioco. L'evento a cui assisto io è per fortuna molto tranquillo, la gente (anche se direi un po' più numerosa sul lato indiano) sorride e sventola bandierine, forse anche per trovare un minimo di refrigerio ai circa 38° di un afosissimo lunedì estivo, mentre intona all'unisono "Allah akhbar"!, una frase che non mi sarei mai aspettato di sentire in un'atmosfera da festa di paese.
GIORNO 2
Sveglia all'alba per assistere all'allenamento mattutino dei lottatori di kushti, un'altra delle cose che da tempo avevo messo nel mio mirino di viaggiatore e fotografo. Il kushti, o pehlwani, è la lotta tradizionale indiana. Sviluppatasi durante l'Impero Moghul (1526- 1857), si rifà all'antica malla-yuddha, la violenta lotta - che ammette pugni, calci, morsi e soffocamenti - sorta nell'Asia Meridionale circa 5000 anni fa e in alcune zone dell'India ancora praticata. Il kushti non permette i colpi violenti e assomiglia molto alla lotta libera, al punto che molti lottatori indiani cresciuti praticandoloi hanno poi avuto successo nella gare di lotta alle Olimpiadi. Caratteristica del kushti è l'akhara, la superficie su cui si combatte: nonostante il progresso dei materiali che ha portato tutte le altre discipline di lotta a svolgersi su tappeti di gomma, il kushti si pratica ancora sulla terra. Prima dell'incontro la superficie viene ripulita da eventuali sassi, poi viene cosparsa di yogurt, burro, curcuma e ocra, che dona alla terra il caratteristico colore rossastro. Ogni due o tre giorni il campo viene spruzzato con acqua, in modo da avere la giusta consistenza, non troppo dura da causare infortuni ma nemmeno troppo soffice da non permettere ai lottatori di fare presa sul terreno. La durata dell'incontro, a cui sovrintendono tre arbitri, non è fissa, viene pattuita tra i combattenti prima delle ostilità e mediamente è di mezz'ora, eventualmente prolungabile per volontà dei contendenti. Come in altre forme di lotta, la vittoria va a chi riesce mettere a terra l'avversario facendogli toccare contemporaneamente il suolo con le spalle e le anche. Come per tutte le arti marziali, anche il kushti ha tecniche e mosse codificate. Molto importanti nella preparazione di un lottatore sono l'allenamento e la dieta. L'allenamento viene iniziato molto presto, verso le 3:00 di mattina, con migliaia di esercizi fisici - eseguiti anche con attrezzi specifici come clave di legno o cerchi di pietra da mettere al collo - a cui si aggiungono corsa, nuoto e massaggi. Seguono ore di combattimenti, poi un massaggio a base di olio prima del riposo. Nel pomeriggio altri combattimenti e poi a letto presto, verso le 8:00. La dieta segue i principi della Samkhya, l'antica filosofia hindu che divide il cibo, come tutto l'universo, in tre categorie: sattva (calmo/buono), rajas (attivo/passionale) e tamas (spento/letargico). Poiché la lotta è un'attività di tipo rajas, va contrastata con alimenti sattva, i principali dei quali sono il latte, il ghee (burro chiarificato) e le mandorle. Consigliate anche vari tipi di frutta e verdura, ma non la carne, nonostante qualche lottatore moderno la inserisca nella sua dieta. Alcool e tabacco sono fortemente sconsigliati, così come il sesso, al punto che i praticanti vengono considerati quasi alla stregua di monaci combattenti. La palestra all'aperto che visito è piena di giovani, a dimostrazione che la disciplina è ancora molto praticata. Sono molto ben disposti a farsi fotografare e si raccomandano di mandargli le foto in seguito, cosa che ovviamente farò al mio ritorno.
Segue il lungo trasferimento a Peshawar su un pullman fighissimo: aria condizionata, sedili reclinabili con ben 3 diversi tipi di massaggio (anche se mi parevano tutti uguali), perfino uno steward che distribuisce panino e dolcetto. A noi della business class ha offerto Coca-cola e Sprite, in economy aranciata e acqua, quando si dice il potere dei soldi... Tocco di classe finale, una spruzzata di deodorante per ambiente. Speso 12€ circa per 6 ore di viaggio, da un lato all'altro del paese.
Peshawar è una vera chicca, e non solo perché nel mio immaginario è sempre stata la città per eccellenza dei contrabbandieri e dei traffici loschi. Qui si parla in Pashtun, gli uomini portano in testa il pakol e almeno la metà delle poche donne che si vedono in giro portano il burqa (qui generalmente di colore beige, non azzurro o verde come nel vicino Afghanistan, che dista appena 60 km). Girare per le strade di Peshawar è come tuffarsi in un film d'epoca, dove tutto sembra avere un sapore di antico Oriente non ancora toccato dal progresso. Le strade pullulano di vita, i negozi arrivano praticamente in strada e i negozianti si dividono tra quelli che lavorano e riparano e gli altrettanti che, in barba all'etiquette occidentale, non si fanno problemi a sdraiarsi sul pavimento, per farsi un pisolino o anche solo per fare due chiacchiere al telefono. Praticamente tutto il centro, saltuariamente costellato da edifici in legno intagliato spesso fatiscenti, è un enorme bazar.
Visito la grande e antica (1670) Moschea Mohabbat Khan dalla facciata in marmo bianco e l'iconica Torre dell’orologio di Sir Cunningham, alta 26 metri e nota anche come Ghanta Ghar, costruita nel 1900 in onore dell’ex governatore britannico. La zona brulica di uomini, poche le donne e quasi sempre coperte da un burqa e sedute per terra, nemmeno degne di poter utilizzare uno sgabello. La mia guida locale (che è un rompiscatole di dimensioni incommensurabili) ha anche un negozio di antiquariato e, sfinito dalle sue insistenze, finisco per comprare un copricapo antico dopo una sfinente trattativa. Meglio tornare a gironzolare nella città vecchia, dove mi imbatto in un frequentato gelataio: qui il gelato viene preparato facendo congelare del latte che poi viene insaporito mettendoci del sale himalayano (non proprio pulito, se devo dire la verità, viste le scie color terra che rilascia) che normalmente viene servito in un piatto assieme a delle noodles. Io invece lo mangio senza questo improbabile "contorno", tra gli sguardi un po' stupiti degli altri avventori.
Rientro in tuk tuk, più che per la stanchezza per pigliare un po' d'aria, Peshawar non sarà come Lahore ma è un bel caldo pure qua (37°), per fortuna fra un paio di giorni salirò di altitudine e dovrei trovare un clima più gradevole. Ieri avevo incontrato due coppie slovacche al confine di Wagah, oggi nessun occidentale, sarà per questo che ricevo in media una decina di richieste di selfie al giorno da perfetti sconosciuti. Stamattina nella palestra kushti uno mi ha pure voluto filmare mentre pronunciavo una frase su sua richiesta, che mi ha detto essere "Viva Lahore" ma potrebbe essere stato qualsiasi altra cosa.
Scrivo queste sconclusionate righe mentre sto aspettando la cena: mi hanno detto che oggi è un giorno in cui non si dovrebbe mangiare carne ma solo pollo (che a mia memoria non è una verdura...) ma il "ristorante" di strada che ho scelto ha solo montone. Pazienza, anche perché mi ha detto che per cucinare il mio piatto ci vogliono 45 minuti ma mentre scrivo scatta un black-out in tutta la strada, e dire che avevo scelto il ristorante soprattutto per stare sotto il ventilatore... Quando finalmente arriva il piatto ordinato noto che il foglio della comanda è proprio dentro al piatto, unto e bisunto come la carne che mi viene servita: sicuramente il cuoco così non si sbaglia!
GIORNO 3
Se nelle lunghe tratte ormai i bus moderni hanno soppiantato quelli tradizionali, nelle campagne sono ancora popolari i vecchi coloratissimi bus, ma anche gli altrettanto variopinti camion. In una stazione di bus mi imbatto in una formidabile serie di questi bus e non posso fare a meno di salirci sopra. In seguito mi faccio portare presso una delle officine specializzate sia nella riparazione dei mezzi che nella loro decorazione, un abbellimento per il quale i proprietari dei veicoli - spesso lontani da casa per mesi - sono disposti a spendere qualche migliaio di euro. La consuetudine di decorare bus e camion è particolarmente comune in Pakistan e in India ed è stato stimato che questa attività dia lavoro a circa 250.000 persone solo nel paese che sto visitando. L'idea di fondo risale all'epoca della civiltà della valle dell'Indo, quando era consuetudine decorare i mezzi di trasporto. In passato le barche tradizionali Sindhi in legno erano splendidamente intagliate con disegni e motivi vistosi, con piccoli specchi applicati, avorio intarsiato, campane di metallo, perline, conchiglie e piastre di metallo. I Sindhi amano anche decorare i loro animali domestici, ad esempio il pelo dei cammelli viene tagliato producendo disegni floreali e geometrici, e applicando henné e tintura nera. Negli anni '30 la General Motors introdusse per la prima volta i camion e la gente del posto iniziò a decorarli, anche se cominciò a diventare una pratica largamente diffusa solo negli anni '50 per merito dell'artista Hajji Hussain. Le decorazioni non sono realizzate solo tramite la pittura ma anche con l'aggiunta di molte decorazioni aggiuntive come catene e ciondoli, al punto che le truppe americane in servizio in Afghanistan soprannominarono questi mezzi "jingle trucks" a causa del suono tintinnante che i camion producono. Soprattutto i bus sembrano fare gara a chi è più decorato, come se la gente scegliesse di salirvi in base alle decorazioni che li costellano, non solo esternamente ma anche internamente. Le decorazioni nei mezzi pakistani risentono della cultura musulmana e spesse riportano calligrafie islamiche e iconografie di origine religiosa.
Ci addentriamo nella campagna circostante per ammirare il ponte Choa Gujar, un bel esempio di architettura del periodo Mughal, lungo 75 m e largo 5,80 m, costruito con mattoni posati su malta di calce. Il ponte ha cinque pilastri cilindrici alti 8 m sormontati da cupole a forma di melone, intonacate con malta di calce. Sotto il ponte 12 passaggi ad arco, che consentono lo scorrere delle acque del fiume Bara, dove qualcuno sta lavando una moto. Ai bordi della strada, vi sono alcune carcasse di bovini in via di putrefazione, in certe cose il Pakistan ricorda la disperata umanità della vicina India.
Di tutt'altro genere ma non meno interessante la visita successiva, presso una fabbrica di armi nella periferia di Peshawar (che ufficialmente non si potrebbe visitare senza permessi). In realtà il mio sogno sarebbe stato quello di visitare la non distante cittadina di Darra Adam Khel, storico luogo di produzione di armi da fuoco con più di 200 fabbriche dove fucili e pistole (negli ultimi anni soprattutto quest'ultime perché, essendo più piccole, è più facile rispettare la legge che vieta di mostrare le armi in pubblico), copie delle produzioni occidentali, venivano forgiate a mano da abilissimi artigiani, al punto che solo armaioli esperti li sapevano distinguere da quelle ufficiali. Poiché era diventata una destinazione che attirava turisti avventurosi, la città è stata dapprima chiusa agli stranieri (per evitare incidenti) e ultimamente il governo ha deciso di spostare tutte le vecchie fabbriche in nuovi capannoni, limitando le licenze. La fabbrica che visitiamo, anche se nella propria show room mostra dei mitra, è specializzata nelle repliche delle pistole Beretta.
Completa la giornata la visita presso una bella haveli (abitazione di architettura moghul con cortile interno) ancora parzialmente abitata e una visita presso un commerciante di stoffe antiche, dove trovo uno stupendo abito islamico finemente ricamato che non poso fare a meno di acquistare.
GIORNO 4
Non sopporto più la guida che avevo assoldato per Peshawar, sempre pronto a chiedere soldi e cambiare idea e versione per due spicci in più, al punto che decido di rinunciare ai suoi servizi per l'ultima giornata a Peshawar, nonostante le sue insistenze. Quanno ce vò, ce vò.
Ma non ne risento, anzi, come spesso succede quando si girovaga a caso, finisco per scoprire cose interessanti che raramente ai turisti vengono mostrate, non per cattiveria, ma più probabilmente perché ritenute non degne di nota dalle guide locali che non sempre sanno intercettare i gusti e gli interessi dei visitatori. Mentre cerco il Peshawar Museum, m'imbatto nello strepitoso mercato dei pezzi di ricambio per auto, una specie di girone dantesco super fotogenico (e super caldo) in cui uomini dalle mani sporche di olio per auto commerciano qualsiasi cosa possa servire per riparare un'auto o una motocicletta. Mi sento come un pisello nel baccello.
Poi finalmente visito il Peshawar Museum, che si rivela perfino superiore alle mie non basse aspettative. La cosa è comprensibile perché contiene le migliori collezioni al mondo di arte del Gandhara (civilizzazione tra il V sec. a.C. e il VII d.C. con chiare influenze ellenistiche - qui nel 300 a.C. passò Alessandro Magno) e di arte Kalash, una minoranza etnica animista che visiterò nei prossimi giorni. In seguito, gironzolando, trovo un artigiano che produce uno interessante strumento a corde locale e mi fermo un po' ad ascoltare e a vedere la gente che passa dal negozio/laboratorio. Poi il cielo s'incupisce e decido saggiamente di rientrare in albergo, mossa avveduta perché da lì a poco un violento acquazzone allaga le strade e vedo i locali spostarsi tranquillamente con l'acqua che in certi punti arriva a metà polpaccio.
Dopo cena prendo un bus notturno per Chitral, partenza alle 21:00 e arrivo previsto verso le 6:00 del mattino seguente. Vorrei provare a dormire ma dapprima il bimbo dietro di me ascolta ininterrottamente una cover pakistana de "Nella vecchia fattoria" (sic.!), poi quando finalmente smette, quello seduto al mio fianco comincia una conversazione telefonica di mezz'ora abbondante. Quando anche lui ci dà un taglio, posso alfine addormentarmi ma alle 23:20 mi svegliano perché c'è un controllo dei documenti (di tutti) ma solo io (unico occidentale sul bus) devo scendere per andare nella cabina dei poliziotti, i quali vogliono sapere quanti giorni resterò a Chitral perché devono scriverlo su un registro, che poi mi fanno firmare. Chiedo quanti altri controlli del genere ci saranno, l'aiutante dell'autista dice uno, perché è un periodo calmo. Provo a riprendere il sonno interrotto ma alle 23:40 il bus si ferma e tutti dobbiamo scendere per una sosta di mezz'ora per la "cena". Il resto del viaggio è stato più tranquillo, non mi hanno nemmeno svegliato per il secondo controllo, forse perché fingevo di dormire.
GIORNO 5
Giungo finalmente nella valle di Bamburet, una delle due valli (l'altra è quella di Rumbur) abitate dall'etnia dei Kalash (detti anche Kefiri, cioè "infedeli"), una popolazione di origine incerta, la sola nel Pakistan che sia stata completamente islamizzata, anche se qualcuno tra i locali ha già cominciato a convertirsi alla religione dominante, come ad esempio la mia guida locale, un brav'uomo ma non proprio una cima né un fine conoscitore della lingua di Albione. Studiati a lungo dagli antropologi occidentali perché la carnagione e gli occhi chiari ne faceva sospettare una discendenza o un contatto con gli Europei (a lungo si è ipotizzato che una legione di Alessandro Magno avesse deciso di stabilirsi qui nel 200/300 a.C.), recenti studi genetici hanno escluso questa possibilità ma hanno confermato comunque geni di origine europea. Tra le molte particolarità di questa etnia, vi è l'aver conservato una religione in parte di tipo pagano e politeista, con alcune peculiarità legate per esempio al vino. Fra settembre e ottobre infatti si svolge una festa che ricorda per certi versi le feste orgiastiche del mondo antico greco-romano. L'uva raccolta dalle viti viene pigiata solo da bimbi maschi e il vino ottenuto dalla fermentazione verrà bevuto al solstizio di inverno durante giorni in cui è d'uso ubriacarsi per avvicinarsi alla divinità. Nel corso dell'anno la popolazione non consuma più vino. Un'altra peculiarità è la presenza nella loro religione della figura del cavallo. Tradizionalmente, i morti non venivano seppelliti ma lasciati in bare sopra terra nelle aree cimiteriali; a loro sono dedicate statue lignee. Le donne sono libere e non portano il chador ma colorati copricapi cilindrici con una specie di coda, riccamente colorati e decorati con perline, che ovviamente provvedo a procurarmi per la mia collezione di cappelli tradizionali, mentre gli uomini indossano regolarmente il pakhol e sono difficilmente distinguibili dagli altri Pakistani.
Le valli sono comunque meta di un crescente turismo: vedo qualche raro occidentale ma anche qualche turista interno, come ad esempio un terzetto di giovani e simpatici Pakistani che alloggiano presso la mia stessa guest house, provenienti dalla provincia meridionale del Beluchistan, a loro dire anche e soprattutto per apprezzare il vino locale, cosa abbastanza inaspettate da gente che rimane pur sempre musulmana. Nonostante l'interesse dei turisti, la mia guest house è piuttosto basica: dormo in una specie di materasso buttato a terra in mezzo a uno stanzone troppo grande; non c'è l'acqua calda, difatti ogni sera mi portano un bollitore di acqua ustionante che devo gettarmi addosso (dopo averla opportunamente mixata con l'acqua fredda dei rubinetti); la carta igienica sono andati a comprarla solo dopo aver fatto presente che avrebbe potuto tornarmi utile; figuriamoci se hanno il wi-fi...
GIORNO 6
Seconda giornata tra i Kalash, in cui visito il villaggio di Krakal, il più grande della vallata che ospita anche un cimitero, in cui le bare di legno - raccolte in un luogo sacro all'ombra di grandi alberi di conifere - sono volutamente lasciate alle intemperie del clima, infatti molte sono scoperchiate.
In seguito mi spingo fino al villaggio di Shekhanandeh, in parte costruito su uno sperone roccioso e attraversato da un fiume abbastanza impetuoso, ma soprattutto abitato dai Katè, una minoranza che abita i due villaggi in fondo alla valle ma di cui nessuno sembra interessarsi, anche perché essendosi convertiti all'Islam (le donne si girano di spalle appena vedono una macchina fotografica) e non essendo fisicamente distinguibili da qualsiasi altro montanaro pakistano, non attirano l'interesse dei turisti. E dire che avevano molto in comune coi Kalash anzi, nonostante lingua e culture diverse, in certi campi erano anche più avanzati: ad esempio nella scultura, infatti sono gli stessi Kalash ad ammettere che le grandiose sculture presso il Museo di Peshawar sono state realizzate dai Katè, su commissione.
Dopo aver percorso a piedi tutta la valle con in spalla il non leggero zaino fotografico e sentendo in lontananza minacciosi tuoni, opto per un inconsueto tardo pomeriggio di relax presso la guest house, con l'immancabile "milky tea" (che però alla lunga mi regalerà qualche effetto indesiderato...) ad addolcire una già di per sé godibile lettura nel fresco clima locale. Evidentemente, la spiccata abilità dei Kalash nell'antica arte del "dolce far niente" dev'essere più contagiosa dell'ultima variante del covid...
I tuoni si sono rivelati premonitori, tempo un paio d'ore e si scatena un violento acquazzone, che però dal balcone verandato della guest house che mi ospita fa già meno paura. Invece poi scopro che l'acquazzone non è passato indenne e anzi ha dato origine a uno straripamento del fiume in fondo alla valle, provocando danni ad alcune motociclette oltre a qualche casa e negozio vicino all'acqua. Ora capisco l'utilità di costruire la guest house in cima alla collina e mi pento di aver tirato dei moccoli quando, con lo zaino in spalla, mi ci arrampicava ansimante. Alcuni ospiti sono andati a vedere che ne era stato delle loro auto, per me la cosa ha comportato solo un ritardo per la cena, visto anche il black out che ha spento tutte le luci del villaggio. Il tempo è comunque passato piacevolmente, soprattutto grazie ai tre ragazzi beluchistani che si sono fati fuori una bottiglia da 1,5 litri del vino prodotto dalla mia padrona di casa, operazione alla quale sono stato ripetutamente chiamato a contribuire, facendo il mio dovere con moderazione.
GIORNO 7
La terza giornata tra i Kalash inizia con delle minuscole per quanto deliziose albicocche, di dimensioni simili a quelle delle ciliegie più grosse. Quelli scuri sono i semi che, una volta rotti, hanno una piccola anima che i Kalash dicono che vada mangiata dopo l'albicocca, pena un attacco di diarrea...
L'alluvione di ieri sera ha lasciato segni tangibili sulla strada che unisce i vari villaggi della valle di Bumburet. Dopo aver visitato il bel museo del villaggio di Battrik visito il villaggio di Daras Guru e, viste le condizioni della strada, ci andiamo in auto. Prima però occorre fare rifornimento presso la "stazione di servizio", in pratica un negozietto qualsiasi che ha una piccola tanica con imbuto come simbolo della presenza di carburante. Il villaggio di Daras Guru è forse il più bello dal punto di vista architettonico, con le case tradizionali addossate le une alle altre sulle pendici di una collina, anche se è il villaggio più misto della valle, in cui molte famiglia musulmane convivono pacificamente con i Kalash.
Dopo la visita al villaggio vado a visitare un luogo sacro dove vengono effettuati sacrifici, l'unico problema è che i sentieri sono molto fangosi e scivolosi, così optiamo per raggiungere il sito propendiamo per seguire la fitta e laboriosa serie di canali di irrigazioni che scorre in piano sopra agli insediamenti.
Ultima serata tra i Kalash, domani sveglia all'alba per uno spostamento in solitaria su due bus (sperando di non sbagliare a prenderli) per arrivare a Mingora, nella Swat Valley, presso un albergo in cui mi aspetta la prossima guida ma di cui non mi hanno ancora detto il nome... Io ci proverei anche a perdere qualche chilo durante il viaggio ma è una gara dura contro la "arzdora" di casa che prepara cene che contano fino a 7 portate con delizie quali il pane con le noci, un formaggio fresco di latte di capra e ogni sera qualche intingolo diverso nel quale affondare l'immancabile pane locale, simile al chapati. E tutte le sere, qualcuno mi invita a bere il vino rosso prodotto dalla padrona di casa, per lo più mentre quel qualcuno fuma marijuana locale, che evidentemente viene prodotta nei paraggi, mentre quella selvatica (senza le proprietà di quella coltivata) la vedo cresce spontaneamente un po' dappertutto.
Lascio questo piccolo paradiso di colori e tolleranza, incastonato in una gigantesca torta sbrisolona, almeno così a me pare questo territorio bello ma fragile, regolarmente martoriato da terremoti, frane e alluvioni.
GIORNO 8
Oggi giornata di trasferimento dalla zona dei Kalash a Mingora, nella Swat Valley (non c'entrano gli agenti speciali dei telefilm che si calavano dalle finestre con le corde). Non è iniziata benissimo la giornata: parto dal villaggio di Brun su un Rav4 e penso che finalmente sono salito su un 4x4 adatto alle disastrate strade locali. Manco a farlo apposta, durante un guado non particolarmente impegnativo (saranno stati 10/15 cm d'acqua) il motore si spegne e non ne vuol sapere di riaccendersi. Dopo svariati tentativi senza successo, l'autista si è incamminato fino a quando ha trovato un camioncino che ci ha tirati fuori dall'acqua con una corda. Poi, spingendo (in salita, su uno sterrato sassoso) l'auto è ripartita.
Gli altri spostamenti non sono avvenuti via bus ma tramite taxi collettivi. Nel primo mi hanno gentilmente lasciato il posto del passeggero, e l'unico altro passeggero che parlava inglese mi indicava i siti turistici di passaggio e altre informazioni, addirittura in una breve pausa mi ha comprato una bottiglietta d'acqua e non ha voluto essere pagato. In pratica mi hanno trattato come una donna incinta (lo so, devo dimagrire). Nel secondo taxi collettivo non c'erano compagni di viaggio altrettanto poliglotti, quindi meno convenevoli e sosta alla moschea per pregare mentre io sono restato pazientemente in auto ad aspettare.
GIORNO 9
Oggi bella sorpresa a Mingora, mentre ci spostavamo ho intravisto un canestro e ho fatto tornare indietro l'auto per raccogliere l'ennesima testimonianza sulla diffusione del gioco più bello del mondo. Poi in seguito ho visitato il villaggio di Islampur, noto per la produzione di pregiati scialli di lana. Vi sono diverse piccole fabbriche con grandi telai di legno, ai quali lavorano - da quel che ho potuto vedere - esclusivamente uomini. Vi sono anche laboratori dove i tessuti vengono tinti, non danno l'impressione di essere luoghi di lavoro molto salubri. Gironzolando trovo anche un forno dove viene prodotto l'onnipresente pane locale, base di ogni pasto se non altro perché - non usando posate - viene utilizzato per raccogliere il cibo e portarlo alla bocca.
La cosa più interessante della giornata, forse anche perché inaspettata, è stata la visita a un villaggio pressoché sconosciuto dei dintorni, dove vi sono ancora le macerie delle case bombardate dal governo pakistano tra il 2008 e il 2010 quando cercarono (riuscendoci) di scacciare i Talebani che avevano preso il controllo della zona. Qui turisti credo non ne abbiano mai visti, infatti inevitabilmente vengo invitato in una casa e mi offrono frutta e bibite, con mezzo villaggio convenuto per vedere l'inusuale ospite. La cosa strana é che hanno parlato tra di loro e con la mia guida per mezz'ora ma nessuno mi ha rivolto mai la parola né mi ha chiesto qualcosa, nemmeno da che paese provenissi. Credo sia la prima volta che mi capita in dozzine di volte in cui qualcuno mi ha accolto in casa propria, si direbbe che l'ospitalità agli ospiti sia letteralmente dovuta e non c'è la molla della curiosità (a meno che non abbiano chiesto di me alla guida, non ho avuto modo di saperlo).
Mingora è una grande città, di quasi 600.000 abitanti, con strade trafficate e perfino un luna park in periferia. Eppure a volte il Pakistan mi sembra l'Africa: sono in un albergo apparentemente di buon livello, la colazione è compresa ma non esiste una sala apposita, quindi devi ordinare quello che desideri e poi te lo portano in una delle piccole hall del piano della tua stanza. Sempre se non si dimenticano, come hanno fatto stamattina, in cui ho finito di fare colazione alle 9:45 dopo averla ordinata alle 8:00. Vabbeh, capita. Poi torni il pomeriggio, chiedi la chiave alla reception ma non la trovano, anche se dicono che "tanto è aperta". Andiamo bene. Salgo ma la porta non si apre, torno alla reception, sale con me quello che sembra il più sveglio e l'apre, praticamente a spallate. Fa per andarsene soddisfatto ma gli faccio notare che adesso le cerniere dei cardini, sotto i suoi colpi, si sono allentate e andrebbero strette un po' di viti, oltre a sostituire quelle mancanti da tempo. Alla fine la porta viene sistemata alla meno peggio, almeno per me che sono alla mia ultima notte qui dovrebbe essere sufficiente. Faccio la doccia, è fredda, ancora una volta. Lo faccio presente alla reception, anche se non credo serva a molto, e vado per uscire a cena con la guida. Non so se è per gentilezza o per timore di una velenosa recensione (che non faccio mai), il receptionist (forse anche proprietario) si offre di portarci al ristorante con l'auto di rappresentanza dell'albergo, un gigantesco Suv Toyota Prado TZ, con tanto di schermi per i passeggeri posteriori sui poggiatesta, come nei sedili delle compagnie aeree più fighe. È questo che non capisco, hanno i soldi per comprarsi un macchinone che costa più di 70.000 dollari ma l'albergo viene gestito risparmiando su cose banali come la normale manutenzione.
GIORNO 10
Oggi andiamo al fiume che, dove il mare dista migliaia di chilometri, è il posto dove la gente comune viene per vincere il caldo estivo. E siccome il posto più fresco è proprio dove l'acqua scorre, si vedono dei charpoi (letti tradizionali in legno e corda) posizionati vicino, se non proprio sopra, alle acque del fiume o in piccole vasche di cemento appositamente costruite nei pressi. In altre vasche ci sono delle trote, che chi vuole può catturare con un retino per poi farle cuocere sulla griglia dai cuochi del ristorantino.
Visito un altro villaggio e mentre passo davanti a una casa spunta l'anziano capofamiglia, col fucile in spalla pronto per andare a caccia. Dopo un po' di convenevoli su cosa si caccia da quelle parti, mi chiede se voglio sparare. Figurati, ho sparato solo durante il servizio militare, meglio non andare a cercare rogne. Raccoglie la sfida il figlio, mira a una pietra individuata come bersaglio ma la manca. Tocca al padre, si allontana come per dire che per lui è troppo vicino, prende la mira e va a segno. Prova la mia giovane guida, anche lui fa cilecca. Poi mi porgono l'arma che in realtà è un fucile ad aria compressa che spara mini-proiettili di piombo, capaci giusto di abbattere un'anatra. Mi tocca accettare la sfida. Prendo la mira, premo il grilletto ma è troppo duro e non riesco a sparare. C'era la sicura. Dimostro la mia dimestichezza con le armi. La tolgono, riprendo la mira, mi sembra di non tenere il fucile abbastanza fermo ma... BANG! Parte il colpo...e centro in pieno la pietra! Applausi per me. Ovviamente, mi rivolgo al padre con un irridente "Eh, questi giovani non sono capaci di far niente, mica come noi vecchi!".
Terzo albergo di fila in cui, oltre all'acqua calda, non c'è nemmeno la carta igienica. Ok, prendo atto che è un optional. Il receptionist stasera mi ha detto che sembro un Pakistano, ed è già il secondo. Ok, Panico!
GIORNO 11
In mattinata visito il villaggio di Mankar Swat solo perché c'è un bel ponte sul fiume Swat da attraversare. Sspesso è proprio l'assenza di veri motivi a portarmi in posti interessanti e a vivere situazioni inaspettate. Niente di particolare, a parte le solite case sgarrupate e dei bambini che giocava a cricket (con la pallina che, in un villaggio costruito su una riva del fiume, è da andare a recuperare qualche piano di sotto almeno ogni 5 minuti). Prima di andarcene accetto uno dei tanti inviti a bere un the e veniamo accolti in una meraviglia di casa, tempestata di decorazioni kitsch ma tenuta con vero amore dalla moglie del nostro ospite, infinitamente più pulita e curata di qualsiasi albergo o ristorante visto finora in Pakistan. Nelle foto che seguono potete ammirare il sobrio bicchiere (di plastica, non vetro) che mi dicono essere stato usato per la cerimonia nuziale, perfetto esempio del tipo di ninnoli pieni di lustrini per cui la padrona di casa nutre una vera passione.
Riesco anche a farmi invitare ad un matrimonio, di cui divento immancabilmente l'ospite più prestigioso, il che significa che devo stringere la mano e intonare un "Aleykoum salam" a praticamente tutti gli invitati di sesso maschile, in primis agli anziani. C'è chi dice che saranno 500/600 invitati, io direi la metà, comunque tanti. In realtà, il matrimonio non è particolarmente divertente, visto che uomini e donne stanno in aree distinte della casa e in pratica non si fa molto di più che mangiare. Per fortuna a vivacizzare un po' l'atmosfera c'è anche qua l'usanza di fare degli scherzi allo sposo. Gli amici più intimi dapprima lo allontanano dalla casa e poi, una volta sulla strada, gli versano addosso dei coloranti per stoffe comprati per l'occasione. Lo sposo cerca di ribellarsi e di rendere pane per focaccia, inseguendo gli autori dello scherzo in mezzo ai campi di pesche ancora umidi dopo la pioggia. Alla fine, sporchi di coloranti, sudore e fango, tutti al fiume a lavarsi.
In seguito, visito il villaggio natio della mia guida (con ennesimo giro di the, biscotti e altra roba da smangiucchiare che tanto ormai, a forza di inviti, si salta il pranzo) e per concludere la giornata mi dedico un po' alla "caccia fotografica al burqa", operazione sempre piuttosto complicata, per compiere la quale devo mettere in atto strategie da fotografo di avifauna: rimango in auto, sfruttando i vetri fumé e spio nello specchietto per vedere se c'è qualche soggetto interessante in arrivo. Poi, quando una donna in burqa è ormai vicina e ignora la mia presenza, scatto la foto. Sono talmente vicino che sentono il click della mia macchina ma ormai è tardi. Non è che riesco a fotografare il volto, semplicemente fotografo il burqa ma, anche se così bardate sono assolutamente irriconoscibili, quando si vedono inquadrate da una macchina fotografica, sistematicamente si voltano, come per nascondere un volto che è già abbondantemente nascosto. Probabilmente, è un riflesso incondizionato.
GIORNO 12
Oggi visita alla rinomata Kalam, considerata dai Pakistani una specie di Cortina d'Ampezzo visto che è la località più nota della Swat Valley, a sua volta considerata una piccola Svizzera per via dei paesaggi alpini. Kalam sorge alla confluenza dei fiumi Gabral e Ushu, che da qui in poi diventano il fiume Swat. Il clima è ideale perché in inverno, nonostante sia situata a 2.000 mslm, il termometro non scende sotto lo zero e in estate non supera i 25° ma in realtà la trovo piuttosto deludente perché pullula di alberghi di cemento e ristoranti dalle vistose insegne in ogni dove.
Per fortuna basta allontanarsi un po' per ritrovare il Pakistan vero, quello rurale. Il primo villaggio che visito è quello di Boyun, circondati da campi coltivati con cura e una moschea un po' naif, dai cui altoparlanti il muezzin diffonde i suoi artistici gorgheggi. È zona abitato dai Kohistani, una minoranza etnica che da qualche decennio si è convertita all'Islam, di fatto ormai esteriormente indistinguibile dagli altri Pakistani. Entriamo nel villaggio e diversi uomini (donne in giro non se ne vedono) escono da un'abitazione, all'interno della quale non ho capito cosa stesse succedendo. Vedo che la guida fatica a trovare qualcuno al quale chiedere un po' di informazioni, finalmente individua uno disponibile e, con mia grande sorpresa, non gli si rivolge in Urdu (la lingua ufficiale del Pakistan) ma in Inglese! È stato comunque un mezzo miracolo trovare qualcuno col quale interfacciarsi, i Kohistani tendenzialmente parlano solo la propria lingua e in generale hanno un tasso di scolarizzazione attorno al 20%, anche meno in questa zona che è considerata la meno sviluppata del paese. Però sono ospitali, mi invitano in una delle loro case per l'immancabile tè e altre cibarie ma, per i citati motivi, la conversazione latita e dopo un po' prendiamo l'uscio.
Visitiamo un altro villaggio (o è sempre lo stesso? Non è facile capirlo in una zona dove le abitazioni sono sparse in mezzo ai campi) sempre abitato da Kohistani, che conserva ancora un paio di antiche tombe in legno di quando erano animisti e una tozza torre, costruita con la tecnica antisismica già ammirata altrove che alterna travi di legno a sassi. Qui l'ospitalità raggiunge l'apice: dapprima ci vengono offerte delle albicocche letteralmente raccolte dall'albero appositamente per me, poi un intero pranzo, che definirei il più gustoso del viaggio, tutta roba freschissima e gustosa. Proseguiamo nella visita del "centro" del villaggio e un simpatico signore con barba fluente e pakhol in testa, ci invita a bere l'ennesimo the nel suo negozio in cui vende funghi e altre piante trovate nel bosco. Avranno anche studiato poco i Kohistani, ma vivono in un piccolo paradiso lussureggiante, mangiano cibo genuino e conducono una vita semplice, dove l'ospitalità è sacra. Ho visto di peggio.
GIORNO 13
Ultimo dispaccio giornaliero per una giornata di trasferimento dalla Swat Valley alla capitale Islamabad, che nonostante gli oltre 4 milioni di abitanti è appena la nona città più popolosa del paese. Fu realizzata tra il 1961 e il 1966 per sostituire Karachi come capitale, nei pressi di Rawalpindi (capitale provvisoria del Pakistan tra il 1959 e il 1968). È una città moderna: strade larghe, alti palazzi recenti, monumenti futuribili, decisamente più vivibile di altre megalopoli pakistane sovrappopolate ma proprio per questo non così interessante ai miei occhi. L'unica cosa che ho il tempo di visitare è la grandiosa moschea Faisal, che prende nome dal re arabo che l'ha finanziata e fatta costruire nel 1986. È la più grande del paese nonché la sesta più grande al mondo ed è in grado di accogliere 300.000 fedeli sotto le sue avveniristiche architetture caratterizzate da minareti che paiono razzi pronti a partire verso il cielo (o a bombardare l'India?) e da un gigantesco spiazzo il cui granito scotta come un fornello a induzione (che ovviamente si può calpestare solo scalzi). Poi è ora di andare all'aeroporto per lasciare il Pakistan, una terra interessante che mi riprometto di tornare a visitare più approfonditamente.