BOMBE E BOMBAROLI
Viaggio nelle terre del basket slavo, Agosto 2013
PREPARATIVI
Un “viaggio a tema” non l’avevo mai fatto prima. Essendo viaggiare la mia prima passione, ho sempre messo il viaggio nel suo complesso al centro del viaggio stesso e non avevo mai pensato a digressioni, a cercare un filo conduttore di tipo diverso. L’occasione si è presentata per questo viaggio nei cosiddetti Balcani, terra che ha donato fior di protagonisti a quella che è la mia seconda passione, il basket. Anche a posteriori sono molto contento della scelta: sono molte più le cose che questa traccia da seguire ha aggiunto al viaggio, che quelle, direi nessuna, che ha tolto. Andiamo per ordine.
Galeotti furono due miei giovani e simpatici ospiti pugliesi che mi parlarono del Festival degli Ottoni di Guča, nel sud della Serbia. La cosa, essendo da sempre appassionato di manifestazioni autentiche del folklore locale, mi mise la pulce nell’orecchio. Da qui parto con le mie congetture, fase iniziale imprescindibile di ogni ipotesi di viaggio. Quando però ho la quasi certezza che, in ogni caso, non potrei assistere al citato Festival che si tiene sempre nella prima metà di agosto, periodo nel quale non posso viaggiare, ormai mi sono appassionato all’idea di andare in un posto così vicino e contemporaneamente così poco conosciuto. A parte i due ragazzi citati, che peraltro avevano fatto una toccata e fuga a Guča e poi erano rientrati subito in Montenegro, non sapevo di nessun altro che avesse viaggiato in Serbia. In più ho la curiosità di vedere con i miei occhi un luogo in cui non si sono ancora spenti del tutto gli echi dell’ultima guerra disputatasi sul suolo europeo.
Nel pensare a cosa possono offrire queste terre da un punto di vista culturale, per quanti sforzi faccia per ricacciarlo indietro, mi torna sempre in mente il basket. Poco prima, Sergio Tavčar, l’immarcescibile telecronista di Tele Capodistria – la televisione della minoranza slovena in Italia - che nella mia giovinezza ascoltavo commentare col suo inconfondibile stile sarcastico le gare del campionato jugoslavo, aveva scritto “La Jugoslavia, il basket e un telecronista”, un libro che ripercorreva la sua carriera e, contestualmente, la stupenda parabola della pallacanestro jugoslava.
La pallacanestro slava è tuttora viva e vegeta ma indubbiamente l’apice l’ha raggiunto prima della frammentazione seguita al conflitto. In questo periodo, che sommariamente va dai primi anni ’70 al 1991, le Nazionali schierate sotto la bandiera con la stella al centro hanno sfoderato una sequela di campioni come raramente è dato vedere in uno sport. Questa lettura aveva rinfrescato i miei ricordi e alimentata ulteriormente la mia voglia di conoscere quei posti. Il problema è che non esistono itinerari sperimentati né tantomeno tour preconfezionati di questo genere. Mi serve quindi qualche informazione da chi c’era a quei tempi e chi meglio dell’autore dell’unico testo sul basket slavo in italiano (e forse anche in inglese)? Prendo contatto nuovamente con Sergio - che poco tempo prima avevo intervistato per una rivista specializzata per la quale collaboro - e gli chiedo dei consigli sui luoghi storici visitabili: monumenti, palestre e società. Con la consueta disponibilità, forse anche un po’ stupito per la richiesta atipica, me li elenca: alcuni li conosco e li avevo già messi in lista ma molti mi giungono del tutto nuovi e spesso accompagnati dalla sinistra fama di luoghi inospitali e quasi inespugnabili e quindi, nella mia testa, ancora più ricchi di fascino. È quello che cercavo e devo ringraziare Sergio per avermi dato la spinta finale.
Ora devo trovare dei compagni di viaggio: una cosa del genere trarrebbe sicuramente linfa vitale dalla condivisione delle situazioni con altri che hanno contratto lo stesso, incurabile, morbo. La ricerca di compagni è meno difficile del solito e, per una volta, coronata dal successo. Frequentando un forum di appassionati di pallacanestro – un raro caso di forum di tifosi riservato a gente che ama quello sport, non i classici tifosi beceri che vanno a palazzo per sfogarsi a urlare improperi e non distinguono una difesa a zona da una a uomo - sapevo già che a qualcuno poteva interessare un viaggio del genere. Luca, navigato viaggiatore mio coetaneo, non mi delude e mi dà subito la sua adesione di massima. Considerato il suo modo di viaggiare molto simile al mio, avevo da tempo la curiosità di viaggiare con lui ma non avevo mai potuto soddisfarla perché io di solito evito il periodo estivo mentre lui viaggia esclusivamente, per motivi di lavoro, in agosto o a cavallo delle feste natalizie. Per l’occasione faccio uno strappo alla regola e cambio periodo.
Poi, dopo aver manifestato un suo iniziale interesse, quando ormai cominciavo a dubitare che si sarebbe unito a noi, conferma la sua presenza anche Marco, di una generazione successiva alla nostra, appassionato di basket come noi ma privo di quei ricordi che solo la nostra età può dare e, per sua stessa ammissione, non abituato a viaggiare alla giornata, cosa che però voleva sperimentare con noi, sapendoci vecchi lupi di viaggio. Entrambi di Bologna, entrambi tifosi della Virtus fino al midollo, entrambi scrivono a vario titolo di basket. Per un breve periodo è sembrato potesse unirsi pure Matt, pesarese e tifoso della Scavolini, altro viaggiatore spartano conosciuto sui forum cestistici, che però non è riuscito ad ottenere le ferie nel periodo che ormai Luca ed io avevano da qualche tempo fissato. Il roster è stato completato con soddisfazione del General Manager.
Essendo in primis viaggiatori, non vogliamo però sacrificare interamente il viaggio sull’altare dei luoghi del basket. I luoghi in cui la pallacanestro balcanica ha avuto la sua culla sono soprattutto le città e se avessimo voluto seguire solo il fil rouge del basket avremmo dovuto visitare le capitali dei nuovi stati più qualche città della costa dalmata. In estrema sintesi Lubiana, Zagabria, Belgrado e Sarajevo più Sebenico, Zara e Spalato, cosa che avrebbe significato lasciare fuori le zone meno sviluppate - che spesso sono fra le più interessanti per altri motivi - e il Kosovo, in cui vige tuttora una situazione non completamente pacificata e dove il basket non ha radici molto profonde. Decidiamo quindi, tenuto conto delle due settimane di tempo a disposizione, di tralasciare le città della costa adriatica, sicuramente più turistiche, certamente più affollate ma anche più facilmente visitabili con viaggi successivi e meno impegnativi da un punto di vista logistico. Optiamo per le capitali di Slovenia e Croazia e di concentrarci sui paesi meno battuti dalle rotte dei tanti turisti che attraversano il confine provenendo dal nostro paese, cioè Bosnia-Erzegovina, Serbia e Kosovo, sempre se in quest’ultimo paese non ci sono peggioramenti della situazione politica tali da impedircelo. Il mezzo scegliamo di noleggiarlo, avendo la mia macchina diversi anni, così come quella di Marco. Luca poi l’auto non l’ha neanche, ma solo la moto.
A proposito di Balcani. Il nome dato a questa parte di Europa stretta tra Mar Adriatico e Mar Nero è un po’ fuorviante. I Balcani sono una catena montuosa piuttosto piccola, la cui stragrande maggioranza è in territorio bulgaro e solo una piccola parte in territorio serbo. Al contrario le Alpi Dinariche non solo sono molto più vaste ma sono distribuite su ben otto stati: Italia, Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Montenegro, Albania e Kosovo. Proprio gli abitanti delle Alpi Dinariche costituiscono un particolare fenotipo umano. Gli appartenenti a quella che una volta si sarebbe detta “razza dinarica” sono i più alti del mondo: 183 cm di statura media per gli uomini. Sfido io che sembrano nati per giocare a basket. Le donne, mediamente alte 170 cm, sono delle atlete notevoli, col non deprecabile vizio di essere spesso le più avvenenti nel loro sport, come la cestista croata Antonjia Mišura, considerata l’atleta più sexy delle Olimpiadi di Londra, o la tennista serba Ana Ivanović, in passato numero uno della classifica ATP e autentica dea con la racchetta in mano.
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Installazione artistica a Belgrado, Serbia
I - NOVELLO VIRGILIO
È subito sorpresa. Presentatici all’aeroporto di Bologna per ritirare l’auto a noleggio prenotata, scopriamo con delusione che il mezzo - che peraltro non è la Citroen C3 richiesta ma un’appariscente Alfa Romeo Giuletta - non è coperto da assicurazione per la stragrande parte del viaggio. Solo in Slovenia potremmo stare tranquilli, gli altri paesi sarebbero scoperti e di andare senza assicurazione con un’auto sportiva fiammante in paesi dove il furto d’auto è piuttosto endemico, non ci piace per niente. Inoltre scopriamo che il mezzo è fornito col pieno di benzina e va restituito col serbatoio vuoto, pratica che cela una piccola truffa poiché per quest’operazione sono chiesti 140 €, almeno una 50ina oltre al massimo che si può spendere in carburante. Chiediamo quindi all’impiegato se è possibile rinunciare al noleggio ed essere rimborsati: ci dice che non c’è nessun problema e che riavremo i nostri soldi (quasi 500 €) non appena conclusa la procedura (per la cronaca, i soldi non li hanno mai restituiti e stiamo cercando ancora di riaverli).
Dopo aver visto che gli altri autonoleggi dell’aeroporto hanno lo stesso problema di (non) copertura assicurativa della maggior parte dei paesi che attraverseremo, ci vediamo in pratica costretti a usare dei nostri mezzi e la scelta ricade sulla mia Peugeot 106 del ’97, a tre porte e senza aria condizionata, optional quest’ultimo che potrebbe rivelarsi molto utile, data la stagione. Ha pure qualche coreografica macchia sul tetto. No, non è una verniciatura mimetica, sono solo i segni del tempo e del tenerla perennemente parcheggiata all’aperto, gli stessi che hanno le auto di certi extracomunitari. Ho sempre speso tanto nei trasporti, ma più in biglietti aerei che in veicoli a motore. Come dirà in seguito un mio amico: “Meglio andarci con quella che con un’altra. Alla peggio, se te l’avessero rubata o l’avessi rotta, con 500 euro te ne avresti potuta ricomprare una simile…”. Nel sentirglielo dire accuso un po’ il colpo ma, a mente fredda, devo riconoscere che non è molto distante dalla verità.
Torniamo, con l’ausilio del disponibile genitore di Luca, a casa sua, dove abbiamo lasciato le auto e ripartiamo, ovviamente abbastanza in ritardo rispetto a quanto programmato. Il viaggio aveva come imprescindibile prima tappa Opicina, dove vive Sergio Tavčar con il quale abbiamo appuntamento verso le 11:30. Avendo fatto riferimento al suo libro, che portiamo con noi, e per via dei generosi consigli, è stato meritoriamente eletto da Luca, che frequenta il suo blog, a nostro “Virgilio” e anche se non era pensabile chiedergli di accompagnarci nella visita del Paradiso del Basket, partire con la sua benedizione ci pareva il minimo.
Tavčar costituiva all’epoca un’autentica anomalia nel panorama televisivo. Ai tempi in cui le sue telecronache erano visibili in Italia, il basket italiano s’ispirava immancabilmente al modello americano e il nostro campionato era spesso dipinto come il più forte fuori dalla NBA. Non la pensavano così gli Jugoslavi, che si consideravano più forti di noi. Difficile dargli torto, visto che il nostro predominio a livello di Coppe Europee era in buona parte dovuto al fatto che potevamo permetterci i migliori americani sul mercato. Proprio per questo, quando incontravano la nostra Nazionale, gli Jugoslavi giocavano al massimo per dimostrare la loro superiorità, come ha ammesso candidamente Peter Vilfan nel ricordare la famosa rissa Italia-Jugoslavia a Nantes ’83, raro caso in cui avemmo la meglio e partita dopo la quale avemmo la strada spianata per conquistare il nostro primo oro continentale.
Il discorso è anche più complesso. Gli slavi rivendicavano già da allora la diversità del basket europeo rispetto a quello americano: più naif e basato sulla tecnica individuale quello alle nostre latitudini, più atletico e incentrato sulla difesa e sull’organizzazione collettiva quello d’oltreoceano. Giancarlo Primo e Sandro Gamba, allenatori della Nazionale italiana, furono coloro che indirizzarono, mediaticamente appoggiati dallo storico telecronista e autentico opinion leader Aldo Giordani, il nostro basket verso il modello statunitense, ponendo grande enfasi sulla difesa e sul contropiede. Finì col prevalere una pallacanestro dove l’applicazione era più importante delle doti individuali. In pratica il nostro basket pensava a costruire grandi squadre, che immancabilmente si trovavano colme di giocatori diligenti ma a corto di talenti naturali, mentre in Jugoslavia pensavano a costruire grandi giocatori che poi, uno a fianco all’altro, non avevano bisogno di schemi particolarmente complessi per mettere a frutto la loro bravura. La quantità di campioni prodotti dalla Jugoslavia, nonostante una popolazione meno della metà della nostra, non lascia spazio a discussioni.
Una visione del basket che solo in epoca recente, visto il successo di molti giocatori di scuola europea nella NBA popolata da giocatori di scuola americana dai bicipiti scolpiti ma dalla tecnica individuale sempre più rozza, sta guadagnando seguaci fuori dalla Jugoslavia. Tavčar, per anni allenatore dello Jadran, la squadra della minoranza slovena di Trieste, pensava di essere seguito solo dalla sparuta minoranza slovena cui si rivolgeva Tele Capodistria e non solo tifava apertamente per le squadre slave quando incontravano nelle manifestazioni internazionali quelle italiane, ma non si faceva problemi a denudare, con commenti spesso ironici, le finte certezze di cui si ammantava il nostro basket. Era un periodo in cui i cronisti italiani erano estremamente compiti e il registro sarcastico di Sergio era davvero cosa nuova. Quando Sergio cominciò a ricevere lettere di complimenti da spettatori italiani, capì che, dopo tutto, poteva continuare così.
Gli telefoniamo per dirgli che, per cause indipendenti dalla nostra volontà, siamo in ritardo di un’oretta circa. La risposta, nel consueto stile franco di Sergio, è: “La cosa mi disturba un po’. Cercate di fare in fretta”. Pigio il piede sull’acceleratore del vetusto bolide per quanto concesso dalle leggi della meccanica e siamo a destinazione verso la mezza. Incontriamo Sergio in un bar, ci sediamo, ordiniamo qualcosa di buono - tranne Luca, che se non fosse astemio sarebbe quasi da sposare - e, pian piano, il giusto mix di chiacchiere cestistiche e gradi alcolici smussa gli angoli. Sergio capisce di trovarsi in mezzo a suoi pari, gente con la stessa viscerale passionaccia. Si rilassa, si diverte a raccontare aneddoti e a sentire i nostri, al punto che poi rinuncia ad andare al lavoro immediatamente dopo pranzo e resta con noi ancora un po’.
Una volta al ristorante, Luca mi spinge a mostrargli il “testo di studio” che avevo preparato: una raccolta d’interviste e articoli sui giocatori più grandi del basket slavo da tenere a portata di mano. Poca roba, un centinaio di pagine appena, materiale che può sempre essere utile avere con sé. Alla peggio, pensavo di darlo da studiare a Marco, che non aveva avuto la fortuna di vedere quei giocatori in attività. Gli esami orali sono previsti per il lungo viaggio di rientro. Sergio sfoglia divertito l’autarchico tomo mentre attendiamo che ci servano il pranzo. Ci mostra anche il campetto dove ha cominciato a giocare – e che contribuì, assieme ai suoi coetanei, a costruire – poi dove abita, ormai completamente a nostra disposizione.
Confrontarci con Sergio ci serve non solo a capire la storia del basket slavo, ma anche quella delle genti delle terre che ci apprestiamo a calcare. Lui, sloveno, si definisce un austro-ungarico e in quanto tale, come ogni popolo che ha vissuto sotto il tallone degli Asburgo, introverso, chiuso in se stesso, taccagno ma onesto, gran lavoratore ma più che altro perché spronato dall’alto, non per indole propria. Caratteristiche che a suo dire accomunano gli sloveni in tutto e per tutto ai “polentoni” lombardi e veneti, che lui ritiene ingiustamente considerati i fautori del genio italico, che invece è prerogativa degli emiliani, toscani e marchigiani. Ambasciator non porta pena. I Croati sono uomini di mondo ma nazionalisti convinti, intelligenti ma anche dotati di quella spietatezza che li ha sempre resi eccellenti soldati. Basta guardare i giovani croati, spesso con look al limite del nazi-skin per rendersene conto. I Serbi sono condizionati da uno smisurato complesso di superiorità: si ritengono il popolo eletto dei Balcani, chi ha difeso l’Europa dalle orde musulmane e non hanno nessuna paura di affrontare le situazioni critiche, convinti in un modo o l’altro che la spunteranno sempre. Turbolenti e passionali, possono passare in un amen dal darti una coltellata a prendersi una pallottola al tuo posto. I Bosniaci, eredi della grande tradizione culturale dell'Impero Ottomano, sono poco pugnaci ma persone raffinate e di grande cultura. Da un punto di vista cestistico, questo micidiale mix tra giocatori spavaldi e ordinati, atleti dotati d’istinto assassino o di grande spirito di sacrificio, ha prodotto delle squadre con tutti gli strumenti per affrontare qualsiasi situazione e i risultati ottenuti qualcosa in merito la spiegano. Da un punto di vista politico hanno invece costituito quelle tracce nelle quali la propaganda ha potuto scavare per alimentare quell’odio etnico che, fino a qualche anno prima, non era molto diverso da quello che c’è in Italia tra polentoni e terroni. Argomento che tratterò in seguito.
Salutiamo Sergio che ci dice che lui, come recita un detto sloveno, “in Kosovo non ci andrebbe nemmeno in schiena a Dio” e partiamo alla volta della prima frontiera, che dista veramente poco. Acquistiamo la necessaria “vignette”, 15€ per usufruire delle autostrade slovene per una settimana. Per il ritorno non basterà, bisognerà prenderne un’altra. Il viaggio fino a Lubiana è semplice, tutta autostrada. Non è certo la Slovenia, paese dal tenore di vita ormai poco dissimile dal nostro, il posto dove contiamo di assaporare un po’ di quel clima da oltre cortina che in certi luoghi ancora permane. Dopo una giornata in auto, per non perdere troppo tempo nella ricerca di una sistemazione, ci accontentiamo quasi subito di un albergo a quattro stelle, un tipo di struttura di cui Luca aveva solo sentito parlare nella sua infanzia ma di cui non aveva mai avuto il coraggio di varcare la soglia. Marco, che ancora non sa cosa significa andare per ostelli, non oppone resistenza. Alla fine, dividendo per tre, la spesa non è vertiginosa.
Possiamo quindi tuffarci in centro. Lubiana è città fin troppo occidentalizzata: pulita, ordinata, il centro storico ben tenuto, pieno di dehors e di bella gioventù in giro per le strade. E da città attenta agli ultimi trend, due mode del momento sembrano impazzare: il cosiddetto shoefiti (termine nato dall’unione delle parole “shoe” – scarpe – e graffiti), cioè l’usanza, lanciata dagli adolescenti americani, di legare tra di loro le scarpe con i laccetti e poi lanciarle sui fili della corrente elettrica, e la moda dei lucchetti degli innamorati, non so se inventata da Moccia ma sicuramente da lui, e dai suoi giovani lettori, portata a notorietà internazionale. Non possiamo fare a meno di notare fin da subito le stupende ragazze slave: alte, magre eppure procaci, più bionde che more. Una piacevole presenza che si ripeterà per tutto il viaggio.
Non avendo tempo e voglia di cacciarci al chiuso di qualche museo, visitiamo il centro storico che in pratica si sviluppa sulle rive del fiume Ljubljanica. Non a caso i siti che spiccano sono dei ponti: il Ponte dei Draghi, sorvegliato da quattro feroci mostri alati; il nuovo Ponte dei Macellai, ricostruito non distante dal precedente, opera piuttosto recente e stilisticamente moderna (con sculture contemporanee), le cui balaustre sono ormai state largamente conquistate dai già citati lucchetti; il Ponte Triplo, che coincide col punto più centrale e vivace della città. Non mancano difatti, nei suoi paraggi, artisti di strada che catturano l’attenzione dei tanti passanti. Troviamo posto in un ristorantino con tavoli all’aperto ma poi comincia a piovere e ripariamo all’interno.

Piazza del Mercato a Lubljana, Slovenia
II - ACCOLTI COME RE
Oggi abbiamo previsto la prima tappa cestistica, la visita alla sede dell’Olimpia Lubiana, la squadra della capitale slovena che tanti assi ha fornito alla pallacanestro slava, soprattutto in epoca recente. Terra dove crebbe uno dei padri del basket balcanico come Ivo Daneu, la Slovenia è forse l’unico degli stati dell’ex-Jugoslavia dove la pallacanestro possa essere considerato il primo sport, o almeno alla pari del calcio che invece, in tutti gli altri, è il dominatore incontrastato. L’Olimpia, dalle caratteristiche divise verdi, è da sempre nell’elite delle squadre slave: vincitrice di una Coppa delle Coppe nel ’94, sei scudetti tra il ‘57 e il ‘70 in epoca jugoslava e dominatrice incontrastata del campionato sloveno che si disputa dal 1992, è stata per anni una presenza costante tra le avversarie europee della Virtus.
Tra le sue fila hanno militato giocatori che hanno poi indossato la canotta con la V nera sul petto come l'amato e vincente Radoslav Nesterovič ma anche Jure Zdovc, Marko Milič, Sani Bečirovič, il macedone Vlado Ilievski e Mirza Begić. Tra gli assi che hanno lasciato tracce negli annali dell’Olimpia, vi sono anche il già citato Peter Vilfan, giocatore degli anni ‘70/80 ora Ministro dello Sport, Gregor Fučka, italianizzato in giovanissima età e poi per anni nel nostro campionato e nella nostra Nazionale e nostre vecchie conoscenze come Emilijo Kovačić, Marko Tušek, Boštjan Nachbar, Sandro Nicević e Vladimir Dašić. Ai tempi in cui governava Tito, la Jugoslavia era divisa in sei Repubbliche Socialiste, in pratica coincidenti con i sei stati che sono sorti al termine della Guerra dei Balcani, e le squadre dei capoluoghi – ora capitali - erano immancabilmente l’espressione dell’intera regione. L’Olimpia Lubiana ne era l’esempio più lampante: ogni giocatore di un certo valore che nasceva nel territorio sloveno era implicitamente destinato a diventare un giocatore dell’Olimpia. L’unica eccezione di un certo valore fu Peter Vilfan, originario di Maribor, che non rispose alla convocazione dell’Olimpia. La società non se ne preoccupò, certa che il giocatore non sarebbe potuto andare altrove, cosa che invece Vilfan fece, accasandosi presso la Jugoplastika di Spalato. Sarebbe diventato un giocatore dell’Olimpia in seguito.
Tramite un amico che organizza un torneo estivo cui partecipa anche l’Olimpia, ottengo la mail del General Manager. Gli scrivo, gli spiego che siamo interessati a visitare la società e lui mi gira all’impiegata Darja. Visitando il sito della squadra, operazione d’ingegneria sociale che mi sono sempre curato di svolgere e i cui effetti benefici si vedranno nel corso del viaggio, scopro che è l’ex-capo delle cheer leader, e ovviamente non può che essere di bell’aspetto. Capite le nostre esigenze, Darja ci promette che il giorno del nostro arrivo l’addetto stampa Matej sarà a nostra disposizione, appuntamento alle 9:00.
La sera prima ci siamo coricati già pensando a una ricca colazione in terrazza ma la pioggia ci costringe a desistere, meno male che nella giornata non sono previste visite outdoor. Passiamo quindi al generoso buffet, dove ci rimpinziamo al limite perché, come dice un amico di Luca, “quando fai colazione in albergo, ci devi guadagnare”. Parole da scolpire nel bronzo e che non esitiamo a eleggere a motto di vita. Partiamo per tempo: abbiamo l’indirizzo ma non sappiamo bene cosa cercare, se un ufficio, una palestra o qualcos’altro. Tergiversiamo un po’ nell’investigare nei palazzi che ci sembrano corrispondere al civico che ci risulta, prima di capire che la sede è presso la Stožice Arena, il nuovo palazzetto dello Sport da 12.480 posti che è il campo dell’Olimpia dal 2010. Una volta capito è facile individuare l’imponente struttura, meno trovare la sede della società. Mentre circumnavighiamo l’edificio, Luca trova qualcuno che gli spiega che bisogna scendere per delle anonime scale in metallo a qualche decina di metri dalla struttura e finalmente troviamo la porta giusta.
Ci accoglie Matej, un simpatico ragazzo più giovane di noi ma ugualmente cresciuto a pane e basket, col quale ci divertiamo, punzecchiandoci a vicenda, a ricordare giocatori comuni e passati scontri diretti tra le nostre squadre del cuore. Ci mostra il campo attorno al quale fervono i preparativi per gli imminenti Campionati Europei, che saranno disputati circa un mese dopo la nostra visita, di cui la Stožice Arena sarà il campo principale. Poi ci mostra gli spogliatoi, i campi di allenamento, la sala pesi, fino alla sala stampa e agli uffici. Purtroppo non hanno una sala dei trofei: il precedente General Manager non se ne era mai curato, ora il nuovo vorrebbe farlo ma potrà dedicarvisi solo dopo gli Europei. Con Matej si discute su cosa si regga una squadra come l’Olimpia, se paga il campo che la ospita. Ci fa capire che i soldi sono pochi e che quelli che si raccolgono sono usati per cercare di fare la squadra migliore possibile. Per il campo, poiché l’attuale sindaco della città è un ex-giocatore dell’Olimpia così come il già citato Vilfan è Ministro dello Sport, in pratica è gentilmente concesso dall’alto…
La visita e l’accoglienza sono state ottimali, ci mancherebbe solo di poter visitare la storica Tivoli Hall, il campo sul quale l’Olimpia ha giocato per 45 anni e quello che abbiamo visto in televisione decine di volte. Lo accenniamo a Matej il quale, disponibilissimo, ci carica sull’auto aziendale e ci porta all’altro palazzo. Anche qui fervono i preparativi per gli Europei ma abbiamo, come alla Stožice Arena, modo di scendere in campo e anche di ammirare la polverosa, ma per me fascinosa, palestra secondaria, dai sedili di legno pieghevoli come nei cinema di una volta e le gradinate ripide che facevano sembrare il pubblico incombente sui giocatori. Prima di andarcene chiediamo a Matej quanti tifosi stranieri gli chiedano di visitare la sede come gli abbiamo chiesto noi. Ci risponde che di slavi ogni tanto qualcuno ce n’è ma che siamo i primi italiani in assoluto, come stranieri secondi solo a un gruppo di greci. Lo salutiamo e ci scambiamo gli indirizzi di mail: intendiamo rimanere in contatto con lui perché Lubiana, in fin dei conti, è a 4/5 ore di auto da Bologna e, un salto per una partita, magari un bel derby slavo, non è per niente da escludersi.
Ancora autostrada e in meno di un paio d’ore siamo nella seconda capitale del nostro percorso, Zagabria. Il primo ostello in cui cerchiamo posto è pieno, ma ne troviamo un altro vicino alla stazione dei treni che dispone pure di un parcheggio interno gratuito. Vicini al centro, lo raggiungiamo a piedi, passando davanti al drammatico monumento in stile socialista/realistico ai Partigiani della II Guerra Mondiale (o delle vittime degli ustascia), di fronte al Padiglione Espositivo. La piazza principale è dedicata a Ban Jelačić, l’eroe che sconfisse gli Ungheresi nel 1848 e la cui statua equestre, rimossa in epoca titina e riposizionata al suo posto - per quanto con la spada non più rivolta verso l’Ungheria - quando la Croazia è diventata indipendente, domina la scena.
Alle spalle della piazza sorgono, nel cosiddetto Kaptol, la Città Alta, la gotica Cattedrale dell’Assunzione della Beata Vergine, dalle guglie gemelle e con l’antistante fontana con in cima una statua dorata di Maria, e la piazza dove si tiene il Dolac, l’animato mercato giornaliero, principalmente di frutta e verdura ma anche altri articoli e circondato da bar e posti dove mangiare qualcosa. Ne approfittiamo per ordinare, in una specie di panetteria, i nostri primi burek, piatti di origine ottomana ormai completamente assimilati nella cultura culinaria slava al punto da essere considerati un piatto nazionale quasi ovunque: in pratica si tratta di pasta sfoglia di forma rotonda con diversi tipi di contenuto che può variare dagli spinaci, al formaggio fino alla carne.
Salendo ancora - volendo si può prendere una funicolare - si giunge nella Gradec, che insieme al Kaptol costituisce in nucleo medievale della città, dove si trova la Chiesa di San Marco, dal tetto formato da tegole colorate che rappresentano gli stemmi di Croazia, Dalmazia e Slavonia sulla sinistra e quello della città di Zagabria a destra, costruita nel 1880. Nei palazzi al suo fianco ora hanno sede il Parlamento e la Presidenza della Repubblica. A mezzogiorno, da aprile a settembre, qui si tiene il cambio della guardia, sfuggitoci senza rimpianti, anche perché pioviggina e decidiamo di andare alla vera visita imperdibile della città, il Museo di Dražen Petrović. Purtroppo lo troviamo chiuso, sulla porta un avviso riporta un generico: “Il Museo resterà chiuso dal 15 di luglio”, senza data di riapertura specificata ma con un indirizzo di mail al quale rivolgersi. Andiamo quindi alla stazione dei treni, di fronte alla quale c’è un parco anche questo contrassegnato da una statua equestre e durante la nostra permanenza accorrono i mezzi dei Vigili del Fuoco locali che si piazzano sotto a uno dei palazzi a fianco, anche se non ne capiamo il motivo.
Durante la serata utilizziamo i potenti mezzi a nostra disposizione, cioè lo smart phone di Marco, per mandare una mail al museo approfittando della connessione gratuita dell’ostello. Per tutto il viaggio troveremo in continuazione connessioni wifi gratuite, perfino in Kosovo: negli alberghi/ostelli basta chiedere la password alla reception mentre seduti nei bar o nei de hors si trovano sempre almeno un paio di connessioni gratuite alle quali allacciarsi. Qua, dove una mezz’oretta o più al bar a farsi una bibita è prassi quotidiana per molti, i gestori hanno capito che la mancanza di connessione gratuita spingerebbe i giovani clienti, come dalle nostre parti spesso con gli occhi persi nello smart phone, a sedersi altrove. In Italia ci crediamo molto più avanti, eppure una connessione gratuita - che non può che essere flat e quindi non costa di più se i fruitori sono due o duemila - è ancora concepita come un regalo che si fa ai clienti, non un servizio che li può far fidelizzare.
Cena in un ristorantino/pizzeria cercato con dovizia per evitare i prezzi per turisti che in centro è difficile schivare, anche se Marco, poco abituato ai pranzi frugali tipici delle giornate di spostamento e alle intime soddisfazioni che i turisti fai da te provano nel trovare un esercizio a prezzi contenuti, si spazientisce in quella che giudica solo un’inutile perdita di tempo. Poi, visto il risultato soddisfacente - oltre mangiare bene e a prezzi onesti il titolare, pur in possesso di un inglese non molto più articolato del nostro croato (sì, no, grazie, arrivederci e birra erano i cinque pilastri della nostra conversazione), si dimostra gentile e orgoglioso di spiegarci i piatti – capisce che anche il pasto serale è una “piccola conquista” e che il turista indipendente, salvo che non sia in cerca di pasti da buongustaio, deve tenere basso il budget, per una serie di motivi non solo economici ma anche filosofici.

