L'ULTIMO MATSÉS
Viaggio in Amazzonia, nell'area delle Tres Fronteras tra Perù, Colombia e Brasile - Ottobre 2012
PREMESSA
Non pratico sport estremi, le altezze mi fanno venire le vertigini e non so nemmeno nuotare. Ogni tanto faccio trekking, un paio di volte all'anno, ma mi sono fratturato il mignolo del piede sinistro (sbattendo contro lo spigolo di un mobile mentre giravo scalzo, quindi una cosa più da coglione che da eroe) poche settimane prima della partenza e, anche se ho tolto la fasciatura, zoppico un po', causa un ginocchio che, nel caricare il peso in maniera diversa dal solito, mi duole. Questo per prevenire le obiezioni che qualcuno solleva sui miei viaggi, come se fossero per superatleti o esperti di sopravvivenza. È vero il contrario: se un viaggio lo faccio io allora vuol dire che lo può fare chiunque, donne poco atletiche e ragazzini inclusi. Ho un buono spirito di adattamento, quello sì, ma lo definirei il minimo sindacale per uno che ama viaggiare. Anche a me piacciono le docce calde, le lenzuola pulite e la pasta cotta al dente, ma se non le trovo non ne faccio un dramma perché, ai miei occhi, le cose che danno valore a un viaggio sono altre.
PREPARATIVI
La mia compagna stavolta non c’è, un mio giovane collega causa motivi di forza maggiore deve rinunciare pochi mesi prima al viaggio in Iran che stavamo programmando insieme per novembre e quindi, ancora una volta, sarò da solo. A questo punto, sposto le ferie nella seconda metà di ottobre quando, grazie a un irripetibile super-ponte tra Ognissanti e Patrono (per me il 2 novembre), posso godere, per la prima volta, di tre settimane piene. Quando viaggio da solo cerco di andare in quei posti nei quali presumo non troverò nessuno disposto ad accompagnarmi e quindi rimetto nel cassetto dei desideri l’Iran e comincio a cercare qualche spunto nuovo. È una fase divertente, nella quale ipotizzo le destinazioni più disparate, salvo poi rimetterle nel cassetto perché la stagione non è quella giusta, perché il viaggio costa troppo o perché la destinazione è poco sicura per non andarci in compagnia. Come spesso capita con le illuminazioni, cercando su internet tutt’altro mi imbatto in una foto di un popolo amazzonico del quale non so nulla: i Matsés o Mayorunas, le cui donne portano improbabili “baffi” sul naso nell’intento di cercare di assomigliare ai giaguari.
È la scintilla che cercavo. Non sono mai stato in Amazzonia e per un appassionato come me di popoli che seguono lo stile di vita tradizionale questa è una lacuna che va colmata quanto prima. Ottobre è anche un buon periodo in Amazzonia e, dopo essermi reso conto delle difficoltà soprattutto logistiche ma anche linguistiche (lo spagnolo lo parlicchio ma dubito che basti per dialogare con un indio non troppo civilizzato), cerco un corrispondente locale che possa portarmi presso il popolo citato, che vive in zone non facili da raggiungere, nei pressi della zona cosiddetta Tres Fronteras, dove i confini tra Perù, Colombia e Brasile sono costituiti dal Rio delle Amazzoni e/o i suoi affluenti. Per quanto ogni peruviano che si incontra a Iquitos, la capitale del Perù Amazzonico, si possa offrire come guida per la foresta amazzonica o conoscere qualcuno che si presti a farlo, non posso andare sul posto e arrangiarmi al momento: visto che si prospetta una cosa più impegnativa del classico giro di pochi giorni nei dintorni di una città, ho bisogno di sapere cosa aspettarmi in anticipo. Dopo varie considerazioni opto per un’agenzia locale, scelta che si rivelerà particolarmente felice.
Il tour standard che offre è di 15 giorni, che coprirebbe quasi l’intero periodo che ho a disposizione: volo militare da Iquitos a Colonia Angamos, un villaggio sul fiume Yavarì che segna, per centinaia di chilometri, il confine meridionale del Perù col Brasile; raggiungimento in barca di un villaggio Matsés (non ci sono strade da queste parti, solo fiumi); nove giorni presso una comunità locale e poi rientro alla base via terra, attraverso una zona di foresta amazzonica letteralmente incontaminata, impiegando circa 4 giorni (e dormendo nella foresta per 4 notti) per percorrere una 50ina di km fino a Requena e da lì, su una lancia a motore, tornare a Iquitos. Allettante. Prendo contatto e manifesto il mio interesse. Chiedo se per caso ci sono altri viaggiatori interessati ad unirsi, cosa che mi dice farebbe ribassare il prezzo totale di poco meno di un migliaio di dollari, ma non c’è nessuno in lista.
Nel frattempo comincio a documentarmi su quali altri popoli e bellezze naturali ci sono nei paraggi e scopro che nei giorni che mi rimangono a spedizione completata, potrei visitare i Bora e gli Yagua, che però sono piuttosto assuefatti al turismo, essendo più facili da raggiungere visto che vivono ad appena 30 minuti di barca da Iquitos. Continuando nelle mie ricerche scopro che, non lontano, ci sono i Matis, una popolazione brasiliana non meno spettacolare dei Matsés. Cerca e ricerca, non trovo nessuno che porti a questi ultimi, che tra l’altro stanno in Brasile. L’unica cosa che trovo è un sito che descrive gli indios di questa zona dell’Amazzonia e l’autore, un americano che vive a Iquitos, ha scritto in calce un generico “se siete interessati a visitare questi popoli, mandatemi una mail”. Mi stampo tutte le pagine relative agli indios che potrei incontrare nelle zone dove andrò e gli scrivo, ma non ricevo risposta. L’americano ha pure girato dei video sui Matis e li vende via web. Acquistandone anche solo uno si ottiene l’accesso ad un’area riservata dove sono scaricabili mappe e articoli inerenti. Compro un video e ribadisco il mio interesse via mail. Stavolta l’americano risponde.
Ci sentiamo via Skype e mi dice che i Matis sono contattabili, come lui ha fatto, solo che non hanno un telefono, bisogna incontrarli sul posto e poi mettersi d’accordo su cosa fare, tenendo conto che in Brasile, in teoria, sarebbe necessaria l’autorizzazione preventiva del FUNAI (l’agenzia brasiliana per i contatti coi popoli indios). Mi dice anche che mi chiederanno un mucchio di soldi per essere fotografati e/o ripresi (migliaia di dollari, anche se poi si potrà trattare al ribasso): questo perché lui e quei pochissimi altri che li hanno incontrati (come ad esempio Bruce Parry del programma Tribe della BBC) pagarono parecchio, vista la rarità della situazione. A parte che la telefonata è piuttosto difficile da capire per problemi di connessione (peruviana), l’americano mi lancia dei segnali contraddittori: da un lato mi dice che non ho bisogno di spendere tanti soldi per andare a visitare i Matsés, che basta andare a Colonia Angamos e poi farsi portare con una barca ad un villaggio sul Rio Galvez (suggerisce il villaggio di Jorge Chavez), dall’altro mi dice anche che sia i Matsés che i Matis stanno parecchio sulla difensiva coi turisti, che non li amano particolarmente (e questo è un bene per loro, aggiunge) e che tutto sommato farei meglio a non complicarmi l’esistenza e andare a visitare qualcos’altro in Perù, tipo Macchu Picchu. Sorry my friend, già fatto: a me interessano i Matis e quindi, se può come dice di poter fare, mi metta in contatto con loro.
A questo punto non posso più dedicare 15 giorni ai Matsés, non mi rimarrebbe tempo per i Matis che, peraltro, non sono proprio a due passi dai primi. Visto che nessun altro viaggiatore si è fatto avanti e quindi non c’è un programma già accettato anche da altri da rispettare, chiedo delle modifiche al programma. Per quanto i Matsés siano interessanti, credo che nove giorni presso di loro siano decisamente abbondanti e quindi opto per ridurre ad una settimana il tempo da trascorrere presso di loro. Inoltre il ritorno via terra, anche se lo immagino piuttosto “divertente”, chiedo di sostituirlo con un ben più veloce rientro in volo, anche se mi dicono che i voli sono sempre soggetti alle bizze del tempo. Così facendo mi rimarrebbe un’altra settimana per raggiungere in autonomia Leticia, la città colombiana sul confine col Brasile, e cercare di incontrare i Matis e altre etnie della zona, come i Ticuna, nonché dei Bora e Yagua sulla via del ritorno verso Iquitos meno abituati ai turisti di quelli nei paraggi della città. Mi informo anche sulla possibilità di raggiungere Leticia via fiume partendo da Colonia Angamos, ma la scarto dopo aver visto costi e tempistica (almeno 450$ solo di carburante e non meno di 3 giorni di navigazione). L’agenzia mi dice, se ho qualche dubbio, di contattare Serenella, leader del gruppo di Avventure nel Mondo che fece da apripista per questa spedizione nel 2010. La chiamo e anche se loro soggiornarono in un villaggio diverso, ottengo molte informazioni di prima mano che mi saranno utili. Ormai ho tutte i ragguagli che mi servono, all’appello manca solo il contatto che l’americano mi ha promesso. Il piano B consiste nell’andare a Atalaia do Norte, in Brasile, un villaggio mestizo dove so che vivono alcuni Matis e lì cercare di organizzare qualcosa.

L'alba sul Rio delle Amazzoni a Iquitos
I. IL DIAVOLO CI METTE LA ZAMPA
All’aeroporto di Bologna, al momento in ampliamento e ristrutturazione, il check-in elettronico adesso è obbligatorio, al punto che chi si mette in fila col biglietto viene invitato a servirsi delle macchine e andare al check-in solo per il bagaglio. Poi però è semplicemente impossibile ottenere tutte le carte d’imbarco, perché la compagnia peruviana Taca, che effettua l’ultimo dei miei voli (quello Caracas-Lima), pare non essere riconosciuta dalla macchina (e c’è un’addetta ad aiutare me e tutti gli altri viaggiatori, molti in difficoltà: non è che sono io impedito a non riuscirci). Quindi mi presento al check-in dove mi mandano il bagaglio direttamente a destinazione (Lima) e una volta a Caracas dovrò chiedere la carta d’imbarco al gate dal quale parte il mio volo. Evviva la semplificazione. A Caracas devo pertanto passare i controlli di sicurezza senza carta d’imbarco, cosa che mi costringe a spiegare in uno spagnolo ancora arrugginito la situazione. L’addetta si dimostra comprensiva e nello spiegarmi passo sotto la porta che controlla i metalli, che supero senza che nulla suoni. La corpulenta signora però mi chiede di tornare indietro, mettere la felpa che indossavo sul nastro e ripassare sotto la porta. Mi sfugge perché dovrei farla passare ai raggi X se prima non ha suonato… Nell’attesa, nel non scintillante aeroporto di Caracas, posso per la prima volta lustrarmi gli occhi con le Venezuelane, la cui bellezza è proverbiale vista la quantità di titoli di Miss Universo conquistate dalle figliole di questo paese ma, a parte una ragazza molto bella e molto curata, tutte le altre paiono non meritare tale fama.
Purtroppo la sorpresa peggiore ce l’ho all’aeroporto di Iquitos, più precisamente al nastro di ritiro dei bagagli messi in stiva: il mio zaino manca.
“È rimasto a Parigi” dice l’addetto.
“E quando arriva?” chiedo io.
“Fra due giorni” dice l’addetto, noncurante.
“Troppo tardi. Domani volo a Iquitos e il giorno seguente proseguo per Colonia Angamos con un volo militare, e dubito che potrà essermi consegnato il bagaglio là. Se non mi viene consegnato domani, non potrò entrarne in possesso per almeno una settimana. E dentro ho cose irrinunciabili: abiti, repellente per le zanzare, pastiglie contro la malaria…” dico cercando di trasmettere più urgenza possibile.
“Dipende da Air France. Il loro primo volo è martedì, ma potrebbero consegnarlo a un’altra compagnia area che vola prima. Cercherò di fare il possibile”. Auguri.
Sono le 22:00 passate e il volo per Iquitos parte domattina alle 6:20: uscire dall’aeroporto, pagare un taxi, cercare un albergo per poi ripresentarsi di nuovo qua all’alba mi pare uno sforzo (e una spesa) evitabile e mi attengo all’idea iniziale di passare la notte nella struttura. L’aeroporto di Lima vince il titolo di miglior aeroporto del Sud America ininterrottamente da 4 anni, ma questo non significa che passarvi la notte sia cosa di tutto riposo. Secondo la Bibbia sull’argomento (www.sleepinginairpots.net, avrete sentito questa frase mille volte ma stavolta devo dirla anch’io: su internet c’è veramente tutto!) il posto migliore dove schiacciare un pisolino è il secondo piano, nella hall dove ci sono i tavoli e sedie di metallo nelle quali convergono i clienti dei fast food lì attorno. A parte la relativa comodità e il continuo via vai di gente, verso le 2:00 di mattina i tavoli vengono puliti e accantonati, con gli addetti che fanno sloggiare eventuali turisti appisolati. Premesso che di norma le aree con le sedute più comode sono sempre quelle oltre il controllo di sicurezza, e quindi accessibili solo dopo aver ottenuto il boarding pass, a mio parere il posto migliore è un altro: le poltroncine di fronte ai desk del check-in. Anche qui passano per le pulizie ma le poltroncine le spostano soltanto e quindi vi sveglieranno ma potrete risistemarvici sopra un minuto dopo. Inoltre c’è meno confusione, specie nel cuore della notte, e le sedute sono decisamente più comode. L’unico problema è che l’accesso a quest’area è sorvegliato da addetti che vogliono vedere il biglietto oppure i bagagli di cui vi prestate a fare il check-in. Basta fingersi turisti poco abili con lo spagnolo e bisognosi di parlare con una compagnia aerea oppure attendere gli orari più tranquilli, nel cuore della notte, in cui anche a loro scappa l’occhio.

Mototaxi a Iquitos
II. ACQUISTI DEL PRIMO MINUTO
Volo da Lima a Iquitos, dove la Hector mi viene a prendere all’aeroporto e con un mototaxi raggiungiamo la sede della sua agenzia, entrando per la prima volta in contatto con l’afoso clima amazzonico. Come avrò modo di constatare in seguito, gli spostamenti in mototaxi o con lancia a motore sono uno dei pochi momenti in cui l’afa amazzonica dà tregua. Conosco Armando, il Matsés grazie al quale Hector ha stabilito un prezioso contatto con questa gente: ha il caratteristico tatuaggio sul volto del suo popolo ed è minuto e timido, come solo gli indios sanno essere. Spiego della valigia e che dubito fortemente che me la consegneranno in tempo: mi fa provare gli stivali di gomma che verranno utili durante le passeggiate nella giungla, mi presta qualcosa che mi servirà tra i Matsés (un repellente antizanzare, una torcia elettrica, una borsa) e chiama un suo collaboratore, Alfredo, per darmi una mano a reperire nei negozi di Iquitos quanto necessario per far fronte allo scherzo che sta per giocarmi Air France, che poi mi farò rimborsare al rientro. Mi sistemo in un alberghetto comodamente dislocato vicino alla Plaza des Armas, al Malecon e all’ufficio di Hector. Nella hall c’è un computer col quale collegarsi ad internet gratuitamente. Alfredo è palesemente effeminato, Hector mi aveva avvisato di questo, ma per il resto è un ragazzo a posto, oltre che dotato del miglior inglese che abbia sentito in Perù. Prima di iniziare lo shopping (una pena del contrappasso per me, che lo shopping lo riservo sempre e solo alle ultime ore di permanenza nel paese che mi ospita), ci rechiamo all’Ufficio del Turismo che gratuitamente ed efficientemente contatta l’aeroporto di Lima per avere notizie sul bagaglio. Come volevasi dimostrare, “non sono riusciti a caricarlo” su un altro aereo e quindi arriverà domani, nel tardo pomeriggio, quando avrò già lasciato la città. L’unica cosa che posso fare è lasciare il recapito dell’alberghetto come luogo dove consegnare il bagaglio.
Girovaghiamo per un po’ senza trovare nulla di lontanamente imparentato con quello che cerco e allora mi ricordo che, secondo la Lonely Planet, c’è un negozio, il Mad Mick’s Trading Post, che vende abbigliamento e attrezzatura da campeggio, addirittura che si riprende l’equipaggio usato se uno vuole ricavarci qualche soldino. Alfredo non l’ha mai sentito nominare, cerco su internet e trovo l’indirizzo. Ci andiamo ed è un pacco clamoroso: in pratica costui ha tre camicie di cotone a maniche lunghe, qualche cappello e delle torce elettriche, nient’altro. Nonostante ricordi di aver visto all’aeroporto di Lima e a Cuzco negozi con articoli North Face, Quechua e similari, devo arrendermi al fatto che qua non c’è nulla del genere. Compro, in vari negozi, tre magliette, una camicia a maniche lunghe, tre paia di mutande, altrettante di calzini, un paio di shorts da mare, un paio di infradito, asciugamano, sapone, dentifricio e spazzolino. Gli abiti chissà da quanto tempo sono appesi nei negozi a prendere polvere, sarebbe il caso di lavarli ma la lavanderia vicino al hostal non può restituirmeli prima delle 9:00 di domattina, orario in cui io devo essere all'agenzia per poi andare all’aeroporto militare di Iquitos. In albergo controllo la mail, per vedere se l’americano si è fatto vivo. Nulla. Poteva cominciare meglio.
Non mi rimane che familiarizzare con la città, che costituirà la base dalla quale partirò e rientrerò al termine delle due differenti parti del viaggio. Iquitos, la capitale del Perù amazzonico che sfiora i 400mila abitanti, è la città più popolosa bagnata dal Rio della Amazzoni (Manaus è decisamente più grande ma, contrariamente a quanto molti credono, è ad alcuni chilometri dal fiume) e ha il curioso record di essere la città con più abitanti al mondo che non possa essere raggiunta via strada. Ci si arriva immancabilmente via fiume o via aereo, c’è solo una strada che esce dal paese e va a Nauta, ad un centinaio di kilometri, e lì muore. Sarà per questo che le auto sono davvero poche - anche se Hector si lamenta che, rispetto anche a soli pochi anni fa, sono aumentate esponenzialmente - ma il traffico è tutt’altro che poco: tutti si muovono su scassatissimi bus o, preferibilmente, sugli onnipresenti mototaxi, una specie di risciò trainato da una moto giapponese o cinese. L’asfalto delle strade è liscio come un tavolo da biliardo, levigato da milioni di ruote che lo percorrono sotto il sole cocente. Difatti, nei tratti dove le moto vengono parcheggiate - e il parcheggiatore, come cortesia, mette un cartone sulla sella per evitare che il centauro si ustioni gli zebedei al ritorno - vi sono immancabilmente i segni dei cavalletti, profondamente incisi sulla strada, quasi come parzialmente affondativi. La città non è certo indimenticabile ma almeno, costruita com’è su pianta a scacchiera, è facile orientarvisi. Il centro è costituito, come pare obbligatorio in Perù, dalla locale Plaza des Armas, sulla quale, eccezionalmente, non vi è la chiesa più importante della città. In un angolo però c’è l’edificio più particolare della città, la cosiddetta Casa di Ferro. Disegnata da Gustave Eiffel, lo stesso della famosa torre parigina, venne realizzata per l’Esposizione Internazionale di Parigi del 1889. Lì la vide Anselmo de Aguila, uno dei baroni del caucciù, che la fece smontare e rimontare l’anno seguente (dopo che centinaia di portatori ne avevano trasportato i pezzi nella giungla), prima abitazione prefabbricata di tutte le Americhe.
Una doccia agognata come poche altre in vita mia e finalmente mi posso cambiare, mettendo poi l’asciugamano umido attaccato al ventilatore, l’unico sistema perché con questa umidità si asciughi. Vicinissimo al mio hostal c’è un piccolo ma gradevole malecon, un lungofiume con aiuole, panchine, ristorantini e negozi di souvenir. Ci sono anche dei poliziotti, immagino a tutela dei turisti che a Iquitos non mancano, essendo una delle basi riconosciute del turismo amazzonico. A questo proposito, Iquitos vanta il merito di essere stata la città promotrice della campagna per il riconoscimento del titolo di una delle Sette Meraviglia della Natura per la foresta amazzonica, ed in onore a questo la targa che lo ricorda è stata posta proprio ad Iquitos, e non nel Brasile nel quale solitamente la gente individua la patria della foresta amazzonica. Faccio un giro nel malecon e ne approfitto per scattare qualche foto alle case galleggianti che si vedono sul fiume e in una scuola lì vicina, che pare svolgere il suo compito fino a sera (faranno i turni). Verso l’ora di cena ho appuntamento in albergo con Hector, per definire gli ultimi dettagli. Come mi vede con gli shorts da mare dal vivace disegno a colori bianco e azzurro e una maglietta appena comprati, mi dice: “Sembri proprio uno di Iquitos” e non sono per niente sicuro che sia un complimento.
Mentre stiamo parlando entra una ragazzina che lo saluta. Non faccio in tempo a vederla in volto ma, a occhio, pare una teenager e tiene per mano un occidentale di 1,80 m., completamente canuto, che peserà letteralmente il doppio di lei. Salgono in direzione delle stanze. Pare che Iquitos sia una delle nuove capitali del turismo del sesso, ma in giro nella “zona turistica” non ho colto segnali della cosa, se si eccettua un murale contro il turismo sessuale sui minori. Qualche ragazza vistosa c’è in giro, come in tutto il Sud America del resto, ma non mi pareva di essere capitato nella moderna Gomorra: evidentemente mi sbagliavo. Secondo un articolo trovato sul web, parrebbe che, più che di prostituzione canonica con pagamento della prestazione, a Iquitos siano le ragazze a farsi avanti, per poi tuffarsi nel letto dello straniero e in seguito richiedere regali o aiuti economici non esitando a fingersi incinta (o a cercare di rimanerci di proposito), violentate o qualsiasi altra cosa pur di tirar su qualcosa. Uomo avvisato...
Andatosene Hector, faccio un ultimo giretto nel malecon che, col calare del sole, si è riempito di gente a passeggio, venditori ambulanti, freak che si assomigliano in tutto il mondo e qualche turista, rigorosamente seduto nei locali segnalati dalla venerata guida australiana già citata. Io invece per la prima volta viaggio senza guide cartacee: le poche cose veramente utili che mi serve ricordare le ho memorizzate e così risparmio un peso inutile. Male che vada cercherò un internet point, che dovrò comunque consultare per avere nuove dall’americano. Alle 21:00, complice la notte precedente non proprio riposante e il fuso orario che mi ha allungato la giornata di sette ore, crollo come un bambino che ha corso tutto il giorno. La mia stanza è al secondo e ultimo piano dell'edificio e, come non bastasse, esposta ad ovest: tengo il ventilatore acceso tutta notte per avere un minimo di refrigerio ma ad un certo punto si spegne e non sono più in grado di farlo ripartire.

