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I - NOVELLO VIRGILIO

 

È subito sorpresa. Presentatici all’aeroporto di Bologna per ritirare l’auto a noleggio prenotata, scopriamo con delusione che il mezzo - che peraltro non è la Citroen C3 richiesta ma un’appariscente Alfa Romeo Giuletta - non è coperto da assicurazione per la stragrande parte del viaggio. Solo in Slovenia potremmo stare tranquilli, gli altri paesi sarebbero scoperti e di andare senza assicurazione con un’auto sportiva fiammante in paesi dove il furto d’auto è piuttosto endemico, non ci piace per niente. Inoltre scopriamo che il mezzo è fornito col pieno di benzina e va restituito col serbatoio vuoto, pratica che cela una piccola truffa poiché per quest’operazione sono chiesti 140 €, almeno una 50ina oltre al massimo che si può spendere in carburante. Chiediamo quindi all’impiegato se è possibile rinunciare al noleggio ed essere rimborsati: ci dice che non c’è nessun problema e che riavremo i nostri soldi (quasi 500 €) non appena conclusa la procedura (per la cronaca, i soldi non li hanno mai restituiti e stiamo cercando ancora di riaverli).

 

Dopo aver visto che gli altri autonoleggi dell’aeroporto hanno lo stesso problema di (non) copertura assicurativa della maggior parte dei paesi che attraverseremo, ci vediamo in pratica costretti a usare dei nostri mezzi e la scelta ricade sulla mia Peugeot 106 del ’97, a 3 porte e senza aria condizionata, optional quest’ultimo che potrebbe rivelarsi molto utile, data la stagione. Ha pure qualche coreografica macchia sul tetto. No, non è una verniciatura mimetica, sono solo i segni del tempo e del tenerla perennemente parcheggiata all’aperto, gli stessi che hanno le auto di certi extracomunitari. Ho sempre speso tanto nei trasporti, ma più in biglietti aerei che in veicoli a motore. Come dirà in seguito un mio amico: “Meglio andarci con quella che con un’altra. Alla peggio, se te l’avessero rubata o l’avessi rotta, con 500 euro te ne avresti potuta ricomprare una simile…”. Nel sentirglielo dire accuso un po’ il colpo ma, a mente fredda, devo riconoscere che non è molto distante dalla verità.

 

Torniamo, con l’ausilio del disponibile genitore di Luca, a casa sua, dove abbiamo lasciato le auto e ripartiamo, ovviamente abbastanza in ritardo rispetto a quanto programmato. Il viaggio aveva come imprescindibile prima tappa Opicina, dove vive Sergio Tavčar con il quale abbiamo appuntamento verso le 11:30. Avendo fatto riferimento al suo libro, che portiamo con noi, e per via dei generosi consigli, è stato meritoriamente eletto da Luca, che frequenta il suo blog, a nostro “Virgilio” e anche se non era pensabile chiedergli di accompagnarci nella visita del Paradiso del Basket, partire con la sua benedizione ci pareva il minimo.

 

Tavčar costituiva all’epoca un’autentica anomalia nel panorama televisivo. Ai tempi in cui le sue telecronache erano visibili in Italia, il basket italiano s’ispirava immancabilmente al modello americano e il nostro campionato era spesso dipinto come il più forte fuori dalla Nba. Non la pensavano così gli jugoslavi, che si consideravano più forti di noi. Difficile dargli torto, visto che il nostro predominio a livello di Coppe era in buona parte dovuto al fatto che potevamo permetterci i migliori americani sul mercato. Proprio per questo, quando incontravano la nostra Nazionale, gli Jugoslavi giocavano al massimo per dimostrare la loro superiorità, come ha ammesso candidamente Peter Vilfan nel ricordare la famosa rissa Italia-Jugoslavia a Nantes ’83, raro caso in cui avemmo la meglio e partita dopo la quale avemmo la strada spianata per conquistare il nostro primo oro continentale.

 

Il discorso è anche più complesso. Gli slavi rivendicavano già da allora la diversità del basket europeo rispetto a quello americano: più naif e basato sulla tecnica individuale quello alle nostre latitudini, più atletico e incentrato sulla difesa e sull’organizzazione collettiva quello d’oltreoceano. Giancarlo Primo e Sandro Gamba, allenatori della Nazionale italiana, furono coloro che indirizzarono, mediaticamente appoggiati dallo storico telecronista e autentico opinion leader Aldo Giordani, il nostro basket verso il modello statunitense, ponendo grande enfasi sulla difesa e sul contropiede. Finì col prevalere una pallacanestro dove l’applicazione era più importante delle doti individuali. In pratica il nostro basket pensava a costruire grandi squadre, che immancabilmente si trovavano colme di giocatori diligenti ma a corto di talenti naturali, mentre in Jugoslavia pensavano a costruire grandi giocatori che poi, uno a fianco all’altro, non avevano bisogno di schemi particolarmente complessi per mettere a frutto la loro bravura. La quantità di campioni prodotti dalla Jugoslavia, benché partisse da una popolazione meno della metà della nostra, non lascia spazio a discussioni.

 

Una visione del basket che solo in epoca recente, visto il successo di molti giocatori di scuola europea nella Nba popolata da giocatori di scuola americana dai bicipiti scolpiti ma dalla tecnica individuale sempre più rozza, sta guadagnando seguaci fuori dalla Jugoslavia. Tavčar, per anni allenatore dello Jadran, la squadra della minoranza slovena di Trieste, pensava di essere seguito solo dalla sparuta minoranza slovena cui si rivolgeva TeleCapodistria e non solo tifava apertamente per le squadre slave quando incontravano nelle manifestazioni internazionali quelle italiane, ma non si faceva problemi a denudare, con commenti spesso ironici, le finte certezze di cui si ammantava il nostro basket. Era un periodo in cui i cronisti italiani erano estremamente compiti e il registro sarcastico di Sergio era davvero cosa nuova. Quando Sergio cominciò a ricevere lettere di complimenti da spettatori italiani, capì che, dopo tutto, poteva continuare così.

 

Gli telefoniamo per dirgli che, per cause indipendenti dalla nostra volontà, siamo in ritardo di un’oretta circa. La risposta, nel consueto stile franco di Sergio, è: “La cosa mi disturba un po’. Cercate di fare in fretta”. Pigio il piede sull’acceleratore del vetusto bolide per quanto concesso dalle leggi della meccanica e siamo a destinazione verso la mezza. Incontriamo Sergio in un bar, ci sediamo, ordiniamo qualcosa di buono - tranne Luca, che se non fosse astemio sarebbe quasi da sposare - e, pian piano, il giusto mix di chiacchiere cestistiche e gradi alcolici smussa gli angoli. Sergio capisce di trovarsi in mezzo a suoi pari, gente con la stessa viscerale passionaccia. Si rilassa, si diverte a raccontare aneddoti e a sentire i nostri, al punto che poi rinuncia ad andare al lavoro immediatamente dopo pranzo e resta con noi ancora un po’.

 

Una volta al ristorante, Luca mi spinge a mostrargli il “testo di studio” che avevo preparato: una raccolta d’interviste e articoli sui giocatori più grandi del basket slavo da tenere a portata di mano. Poca roba, un centinaio di pagine appena, materiale che può sempre essere utile avere con sé. Alla peggio, pensavo di darlo da studiare a Marco, che non aveva avuto la fortuna di vedere quei giocatori in attività. Gli esami orali sono previsti per il lungo viaggio di rientro. Sergio sfoglia divertito l’autarchico tomo mentre attendiamo che ci servano il pranzo. Ci mostra anche il campetto dove ha cominciato a giocare – e che contribuì, assieme ai suoi coetanei, a costruire – poi dove abita, ormai completamente a nostra disposizione.

 

Confrontarci con Sergio ci serve non solo a capire la storia del basket slavo, ma anche quella delle genti delle terre che ci apprestiamo a calcare. Lui, sloveno, si definisce un austro-ungarico e in quanto tale, come ogni popolo che ha vissuto sotto il tallone degli Asburgo, introverso, chiuso in se stesso, taccagno ma onesto, gran lavoratore ma più che altro perché spronato dall’alto, non per indole propria. Caratteristiche che a suo dire accomunano gli sloveni in tutto e per tutti ai “polentoni” lombardi e veneti, che lui ritiene ingiustamente considerati i fautori del genio italico, che invece è prerogativa degli emiliani, toscani e marchigiani. Ambasciator non porta pena. I Croati sono uomini di mondo ma nazionalisti convinti, intelligenti ma anche dotati di quella spietatezza che li ha sempre resi eccellenti soldati. Basta guardare i giovani croati, spesso con look al limite del nazi-skin per rendersene conto. I Serbi sono condizionati da uno smisurato complesso di superiorità: si ritengono il popolo eletto dei Balcani, chi ha difeso l’Europa dalle orde musulmane e non hanno nessuna paura di affrontare le situazioni critiche, convinti in un modo o l’altro che la spunteranno sempre. Turbolenti e passionali, possono passare in un amen dal darti una coltellata a prendersi una pallottola al tuo posto. Da un punto di vista cestistico, questo micidiale mix tra giocatori spavaldi e ordinati, atleti dotati d’istinto assassino o di grande spirito di sacrificio, ha prodotto delle squadre con tutti gli strumenti per affrontare qualsiasi situazione e i risultati ottenuti qualcosa in merito la spiegano. Da un punto di vista politico hanno invece costituito quelle tracce nelle quali la propaganda ha potuto scavare per alimentare quell’odio etnico che, fino a qualche anno prima, non era molto diverso da quello che c’è in Italia tra polentoni e terroni. Argomento che tratterò in seguito.

 

Salutiamo Sergio che ci dice che lui, come recita un detto sloveno, “in Kosovo non ci andrebbe nemmeno in schiena a Dio” e partiamo alla volta della prima frontiera, che dista veramente poco. Acquistiamo la necessaria “vignette”, 15 € per usufruire delle autostrade slovene per una settimana. Per il ritorno non basterà, bisognerà prenderne un’altra. Il viaggio fino a Lubiana è semplice, tutta autostrada. Non è certo la Slovenia, paese dal tenore di vita ormai poco dissimile dal nostro, il posto dove contiamo di assaporare un po’ di quel clima da oltre cortina che in certi luoghi ancora permane. Dopo una giornata in auto, per non perdere troppo tempo nella ricerca di una sistemazione, ci accontentiamo quasi subito di un albergo a quattro stelle, un tipo di struttura di cui Luca aveva solo sentito parlare nella sua infanzia ma di cui non aveva mai avuto il coraggio di varcare la soglia. Marco, che ancora non sa cosa significa andare per ostelli, non oppone resistenza. Alla fine, dividendo per tre, la spesa non è vertiginosa.

 

Possiamo quindi tuffarci in centro. Lubiana è città fin troppo occidentalizzata: pulita, ordinata, il centro storico ben tenuto, pieno di de hors e di bella gioventù in giro per le strade. E da città attenta agli ultimi trend, due mode del momento sembrano impazzare: il cosiddetto shoefiti (termine nato dall’unione delle parole “shoe” – scarpe – e graffiti), cioè l’usanza, lanciata dagli adolescenti americani, di legare tra di loro le scarpe con i laccetti e poi lanciarle sui fili della corrente elettrica, e la moda dei lucchetti degli innamorati, non so se inventata da Moccia ma sicuramente da lui, e dai suoi giovani lettori, portata a notorietà internazionale. Non possiamo fare a meno di notare fin da subito le stupende ragazze slave: alte, magre eppure procaci, più bionde che more. Una piacevole presenza che si ripeterà per tutto il viaggio.

 

Non avendo tempo e voglia di cacciarci al chiuso di qualche museo, visitiamo il centro storico che in pratica si sviluppa sulle rive del fiume Ljubljanica. Non a caso i siti che spiccano sono dei ponti: il Ponte dei Draghi, sorvegliato da quattro feroci mostri alati; il nuovo Ponte dei Macellai, ricostruito non distante dal precedente, opera piuttosto recente e stilisticamente moderna (con sculture contemporanee), le cui balaustre sono ormai state largamente conquistate dai già citati lucchetti; il Ponte Triplo, che coincide col punto più centrale e vivace della città. Non mancano difatti, nei suoi paraggi, artisti di strada che catturano l’attenzione dei tanti passanti. Troviamo posto in un ristorantino con tavoli all’aperto ma poi comincia a piovere e ripariamo all’interno.

 

 

 

Piazza del Mercato a Lubljana, Slovenia

 

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